Matulionis, il beato che visse il martirio della Lituania
La piccola Lituania ha il primo martire beato. E’ Teofilo Matulionis, beatificato ieri, con una cerimonia a Vilnius. La vita di Matulionis, passata in gran parte lontano dalla sua patria lituana, riassume in sé la sofferenza di un popolo cattolico deportato, esiliato e perseguitato dal regime ateo.
La piccola Lituania ha il suo primo martire beato. E’ Teofilo Matulionis, beatificato ieri, con una cerimonia pubblica a Vilnius, alla presenza della presidente Dalia Grybauskaite e circa 30mila comuni cittadini, oltre che pellegrini da tutta l’Europa dell’Est. La vita di Matulionis, passata in gran parte lontano dalla sua patria lituana, in diocesi all’estero ma soprattutto nei lunghi periodi di carcere e campo di concentramento, riassume in sé la sofferenza di un popolo cattolico deportato, esiliato e perseguitato dal regime ateo.
Nato a Kudoriskis nel 1873, quando la Lituania era ancora parte dell’Impero Russo, Matulionis fu ordinato prete nel 1900. Nei suoi studi in seminario e nel suo breve periodo di insegnante, imparò il russo, il polacco e il lettone, per poter meglio comunicare con i suoi fedeli in un impero multi-etnico e multi-linguistico quale era la Russia di allora. Fu infatti in Latgalia (la regione russa della Lettonia) la sua prima parrocchia, prima di essere trasferito a San Pietroburgo, allora capitale zarista.
Poi venne la Grande Guerra, la rivoluzione del febbraio 1917 e infine il colpo di Stato bolscevico, che portò all’instaurazione del regime comunista, nel novembre successivo. La Lituania dichiarò la sua indipendenza pochi mesi dopo, il 16 febbraio 1918. Ma padre Matulionis rimase nella Russia allora divisa da una durissima guerra civile, che contrapponeva i bolscevichi da una parte e tutte le forze anticomuniste (dai socialisti rivoluzionari agli zaristi) dall’altra. Nel 1921, soffocati gli ultimi tumulti interni e battute le armate anti-comuniste, apparve ormai chiaro che il comunismo avrebbe imposto il suo ateismo di Stato. E solo due anni dopo, nel 1923, il persecutore bussò anche alla porta della parrocchia del Cuore Immacolato di Gesù a San Pietroburgo: a Matulionis venne chiesto di firmare il consenso per la requisizione della chiesa. Era un’offerta che non poteva rifiutare, ma la rifiutò ugualmente. E dunque venne incarcerato per la prima volta, per tre anni.
Il 28 dicembre 1928 venne nominato clandestinamente, con il consenso di papa Pio XI, vescovo della diocesi di Matrega, appena istituita (comprendente i territori dell’Ucraina meridionale della Crimea) e coadiutore dell’amministratore apostolico di Leningrado (il nuovo nome dato a San Pietroburgo). Il 9 febbraio 1929 ricevette (sempre clandestinamente) l’ordinazione vescovile. La cosa non sfuggì alla polizia politica di Stalin. Arrestato di nuovo nel novembre del 1929, Matulionis venne spedito al gulag delle isole Solovki, al circolo polare artico. Clima rigidissimo, torture e lavori forzati piegarono la salute del nuovo vescovo. Ma non la sua fede. Con quel poco di pane che riusciva a raccogliere, celebrava l’Eucarestia, nel cuore della notte, con i prigionieri cattolici. Nel girone infernale del gulag staliniano, gli aguzzini notarono ben presto la sua attività e le autorità decisero di trasferirlo in isolamento a Leningrado, nel 1933. Fu in questo caso che la sua patria d’origine si rese utile: con uno scambio di prigionieri, la Lituania riuscì a far rimpatriare monsignor Matulionis.
Una volta libero e nel suo paese, poté vivere gli unici anni sereni della sua vita. Ebbe modo di viaggiare negli Stati Uniti e in Medio Oriente, dove visitò il Cairo e Gerusalemme. Nel 1934 fu ricevuto in udienza da Pio XI che espresse gratitudine e ammirazione per la sua fede e la sua fortezza. Anni brevi a cui seguì la vera tragedia: la fine dell’indipendenza lituana durante la Seconda Guerra Mondiale. Monsignor Matulionis era tornato nel suo paese di origine, nominato vescovo ausiliare di Kaunas e cappellano supremo dell’esercito, appena in tempo per subire l’invasione sovietica della Lituania nel giugno del 1940. Con il trattato Ribbentrop-Molotov, infatti, l’Urss annesse i tre paesi baltici e la Polonia orientale, mentre i tedeschi avevano occupato la Polonia occidentale. Una volta conquistata la Lituania, la persecuzione di sacerdoti, vescovi e di tutti i membri dei movimenti cattolici iniziò da subito, per stroncare non solo la Chiesa, ma anche la stessa identità nazionale, profondamente cattolica. Qui il nuovo vescovo di Kaunas visse le stesse vicissitudini del suo paese: incarcerato dai sovietici, poi liberato durante l’invasione tedesca, ma tornato di nuovo alla clandestinità dal 1941 a causa del regime di occupazione subito instaurato dai nazisti. Nel 1943 venne nominato vescovo di Kaisiadorys, sempre in clandestinità. Appena un anno dopo, nel 1944, tornarono i sovietici, “liberarono” il paese dai nazisti e stavolta arrestarono anche coloro che erano riusciti a sfuggire alla loro prima ondata di persecuzione. Nel 1945 Matulionis venne condannato a 7 anni di carcere e lavori forzati. Non si riprese realmente mai più da quell’esperienza, minato nel fisico, ma non nella fede
Quando tornò alla sua diocesi di Kaisyadoris, in Lituania era calato il gelo dell’ateismo di Stato. La Chiesa cattolica, in quanto istituzione, era ufficialmente tollerata. Ma la sua attività era repressa e umiliata in ogni modo possibile. Le chiese vennero requisite, distrutte oppure preservate solo per essere trasformate in magazzini. O in “musei dell’ateismo”, per mostrare al popolo l’oscurantismo della religione contrapposto alle meravigliose sorti progressive del socialismo, come toccò, per esempio, alla chiesa di San Casimiro (patrono della Lituania) a Vilnius. In questo periodo buio, monsignor Matulionis esortò amministratori diocesani e sacerdoti a non scendere mai a compromessi con il regime. Nel Natale del 1957, in una piccola cucina, ordinò vescovo Vincentas Sladkevicius. Il regime comunista, prima lo ridicolizzò per la modestia della cerimonia, poi, visto che il vescovo non si faceva intimidire e rispondeva a tono ad ogni tentativo di scherno, lo relegò in isolamento a Seduva, nella Lituania settentrionale. Nonostante il tentativo di tagliarlo fuori dal resto del mondo, papa Giovanni XXIII, nel 1962, gli concesse la dignità di arcivescovo. In quello stesso anno, il 20 agosto, durante una perquisizione particolarmente dura del Kgb, Teofilo Matulionis morì in circostanze misteriose. Solo nel 1999 un esame sulla sua salma rivelò che era stato avvelenato.
“Martirium propter aerumnas carceris significa che la morte fu causata dalle sofferenze del carcere. Le lunghe e penose degenze nelle prigioni, nei campi di concentramento, nei domicili coatti si protrassero per tutta la vita del Beato e sfinirono a poco a poco la sua forte fibra di sacerdote e di pastore – dice a Radio Vaticana il cardinale Angelo Amato, prefetto per la Congregazione delle Cause dei Santi - Ma le privazioni e le torture, non piegarono la sua volontà di bene. In quel periodo di buio della coscienza retta, l'ostilità dei nazisti e dei comunisti non aveva alcuna giustificazione razionale. Era solo il frutto dell'odio verso il Vangelo di Gesù e la Chiesa”. Come sottolinea il cardinale Amato: “Fu la grazia di Cristo che gli conferì la forza e il coraggio di perseverare saldo nella fede. Questa lealtà al Vangelo è testimoniata da molti che videro in lui un ‘vero uomo di Dio’ e un ‘Santo’. Nel campo di concentramento si comportava da sacerdote pio e sereno, totalmente affidato alla Divina Provvidenza. I persecutori si accorsero del suo eroismo. Ad esempio, quando il comandante russo apprese la notizia della sua morte, esclamò: ‘Era veramente un uomo’! Anche il responsabile del sistema repressivo sovietico disse preoccupato: ‘Non si esclude che in futuro il Vaticano lo dichiari ‘Santo’ e in questo caso la sua tomba diventerà un luogo da visitare per i pellegrini’. Una previsione pienamente avverata”.