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IL CASO

Matrimonio gay? In Austria si fa ma non si dice

Qualcosa non quadra nella felix Austria. Il Parlamento cinque anni fa ha approvato sostanzialmente il “matrimonio” omosessuale, ma oggi si rifiuta di farlo dal punto di vista formale. Insomma, dopo aver detto sì’ ai diritti matrimoniali alle coppie omosessuali, oggi il Parlamento austriaco lo nega. Ma solo formalmente.

Esteri 29_06_2015
Il Parlamento austriaco

La felix Austria e anche la gaia Austria, dato che dal primo gennaio del 2010 le coppie omosessuali possono contrarre legittime unioni civili. Si tratta di un vero e proprio matrimonio: ci si unisce davanti ad un ufficiale di stato civile, l’unione per sua natura è vitalizia, c’è l’obbligo in capo ai conviventi di coabitare sotto lo stesso tetto, di essere fedeli l’uno all’altro (o l’una all’altra), di assistere il para-coniuge in tutto e di collaborare al menage domestico. Inoltre esiste la possibilità di accedere all’adozione, lo scioglimento del vincolo è formalizzato e chi è colpevole della separazione deve pagare il mantenimento dell’altro compagno. Insomma dal punto di vista giuridico un vero e proprio matrimonio. Capita però che il 18 giugno scorso il Parlamento austriaco abbia bocciato un progetto di legge che prevedeva la piena equiparazione dei diritti di conviventi omosessuali ai coniugi, definita come «diritto umano di matrimonio ugualitario». In poche parole i parlamentari hanno detto no al “matrimonio” gay. E i “no” sono stati tanti: 110 contro 26 voti invece favorevoli.

Qualcosa non quadra. Il Parlamento cinque anni fa ha approvato sostanzialmente il “matrimonio” omosessuale, ma oggi si rifiuta di farlo dal punto di vista formale. Il passo sarà pure significativo: chiamare “coniuge” in punta di diritto chi è invece solo convivente o civilmente unito è uno scarto semantico che ha la sua importanza perché rimanda non tanto ad un insieme di diritti che gli omo-conviventi hanno già, bensì alla corruzione di un immaginario collettivo che, si vede, i parlamentari austriaci in modo molto puritano vogliono nonostante tutto salvaguardare. Sarà forse una questione di onore nazionale o di falso senso del pudore da preservare. Detto questo, la foglia di fico di quei 110 no alle “nozze” gay, pur da elogiare, non riesce a nascondere la dinamica schizoide che soggiace alle scelte dell’ordinamento austriaco. Sì ai diritti matrimoniali alle coppie omosessuali, no al “matrimonio” omosessuale. 

Viene allora da chiedersi: perché tanta opposizione a qualificare con il titolo di "matrimonio" ciò che da punto di vista sostanziale giuridico è già matrimonio? Sembra un po' quel riflesso negazionista del tossicodipendente che dice: «Io tossico? Saranno gli altri ad esserlo. Non io che mi faccio una dose solo ogni tanto». E così forse sarà parso agli onorevoli di Vienna che cambiar di nome alle unioni civili in “matrimonio”, lo avrebbe fatto esistere per davvero questo “matrimonio” gay. Negare tale appellativo avrebbe di contro convinto tutti che in Austria i gay non possono “sposarsi”. É un po’ quello che accadeva con la mafia in Sicilia. Per decenni i morti ammazzati non si contavano, ma quasi tutti erano concordi che la mafia in Sicilia non esistesse.

D’altronde la lezione di Shakespeare è sempre valida: «Cosa c'è in un nome? Ciò che chiamiamo rosa anche con un altro nome conserva sempre il suo profumo». Nel nostro caso, anche se li chiamiamo unioni civili odorano di “matrimonio” perché i diritti sono i medesimi. Ma la riflessione del vecchio William vale anche a rovescio. Può un’unione civile, etero od omo che sia, profumare come il matrimonio? No, sarebbe assegnare indebitamente un nome a una realtà che non ha nulla a che fare con il significato di quel nome. Come chiamare “cerchio” un quadrato. Potete pure farlo, ma ogni volta che lo farete starete semplicemente mentendo, perché la realtà dei fatti è un’altra.

La vicenda austriaca insegna che non si può giocare con le parole. Chi vuole assegnare diritti di convivenza a soggetti che vivono insieme, mima il matrimonio. E sbaglia perché è solo il matrimonio ad essere l’unica forma di convivenza lecita moralmente – perché inscritta nella natura umana – e legittima giuridicamente qui in Italia – perché l’unica riconosciuta dalla nostra Costituzione.