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CRISI

Mario Draghi vuol governarci dalla Bce

Il discorso di Mario Draghi al comitato direttivo della Bce è un capolavoro di ambiguità. Non si parla di misure monetarie, ma di governo. Quel "è tempo di cedere sovranità all'eurozona", rivolto all'Italia che non riesce a riformarsi, è tutto un programma.

Politica 09_08_2014
Mario Draghi

Nel clima di generale sfasamento di ruoli e di responsabilità, e di esodo del potere da notabili eletti dal popolo a notabili nominati da influenti élites, sta in questi ultimi tempi acquistando sempre maggior spazio il presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, un banchiere così intimamente e radicalmente “atlantico” che il suo nome, residuo remoto dalla sua origine italiana, suona stonato. Non solo perché parla sempre in inglese, persino quando interviene al Parlamento Europeo (dove ogni europeo ha, non solo il diritto, ma anche il dovere di parlare nella propria lingua materna), ma anche e soprattutto per come pensa e per quello che pensa, verrebbe spontaneo chiamarlo Marius Drakes.

L’altro ieri, al termine dell’ultima riunione del comitato direttivo della BCE prima della pausa estiva (che in Germania, dove la banca ha sede, è più breve che da noi, e termina con il Ferragosto), Draghi ha letto alla stampa convocata per l’occasione un suo discorso che, grazie a Internet, si può tuttora raggiungere e ascoltare per intero. Vale la pena di farlo. Di suo il direttivo non ha deciso nulla: nessuna variazione di tassi o cose del genere. Dov’è dunque la notizia? Si domanderebbe il proverbiale giornalista vecchio stile. Ebbene, ciononostante la notizia c’è: si tratta del discorso che Draghi ha fatto, e che non è la relazione di banchiere centrale, bensì una specie di “discorso sullo stato dell’Unione”, tipo quelli del presidente degli Stati Uniti. Mancandoci in Europa un Obama, Mario Draghi ci viene in soccorso.

Rispetto all’originale è un po’ più piccolo e curvo, un po’ più pallido, e molto più mesto e spiegazzato, ma possiamo accontentarci. Tanto le uniche alternative possibili, ossia il presidente uscente della Commissione Hermann Van Rompuy  per non dire di quello entrante, Jean-Claude Junker, sarebbero anche peggio. Nel suo discorso Draghi delinea il progetto politico generale suo e degli amici suoi riguardo all’Unione Europea, il cui perno sta in questa testuale affermazione: «Per i paesi dell’Eurozona è venuto il momento di cedere sovranità all’Eurozona per quanto concerne le riforme strutturali». E ciò vale, aggiunge chiaramente, con particolare riguardo all’Italia. Neanche all’Unione Europea ma all’Eurozona, ovvero a lui, essendo la Banca Centrale Europea, di cui egli è al vertice, l’unica istituzione di rilievo di tale zona. In quanto alla direzione che tali riforme prenderebbero, se fossero in mano sua, Draghi è di una grande riservatezza, ma parla chiaramente per lui la sua carriera, tutta trascorsa in ruoli di primo piano in luoghi-chiave della grande finanza internazionale a partire dalla banca d’affari americana Goldman Sachs salvo lunghe incursioni al ministero del Tesoro italiano (di cui restò direttore generale attraverso dieci diversi governi) e alla Banca d’Italia, di cui fu governatore in anni cruciali. Straordinario non solo come comunicatore, ma anche come incassatore, il premier Renzi si è affrettato a far sapere di essere d’accordo con Draghi. Sul fatto che le riforme sono urgenti o sul fatto che Draghi vuole farle al posto suo? Questo non è ancora chiaro.

Nel stesso clima di cui si diceva si è poi giunti ieri a Roma all’approvazione del Senato in prima lettura della riforma costituzionale voluta dal governo Renzi. In un’intervista pubblicata da La Repubblica lo scorso 4 agosto, in proposito il premier ha detto tra l’altro: «L’obiettivo di qualcuno non era fermare la riforma, ma fermare noi. Non ce l’hanno fatta». Salute a lui, ma poi resta da vedere la sostanza della questione, ovvero il contenuto di questa riforma, il dibattito e l'eco di stampa sulla quale è stato un monumento alla disinformazione. Diciamo ancora una volta che il nocciolo della riforma non è il Senato, ma un generale riaccentramento a Roma di tutto il potere che ci riporta allo statalismo dell'Italia dei prefetti dell'epoca di Giolitti, anzi di Crispi. Adesso che, grazie a questo suo primo passaggio in Senato, Renzi ha salvato il proprio governo e Berlusconi è ricomparso sulla scena, per il bene della libertà e della sussidiarietà sarebbe meglio che la riforma restasse per sempre a dormire nei cassetti; e che invece governo e parlamento cominciassero ad occuparsi delle vere urgenze attuali, ossia della drammatica crisi dell'economia italiana. Prima che vengano a metterci le mani Draghi e i suoi grandi amici.