Manipolatrice e utopistica: è la gendercrazia
La Nuova BQ intervista Chiara Atzori alla vigilia dell'uscita del nuovo libro "Gendercrazia, nuova utopia". L’oscuramento della differenza tra maschile e femminile, l’uso di slogan accattivanti per ottenere consenso, la fecondazione artificiale, la natura umana da riscoprire nella triade madre-padre-figlio. «Spesso ci si dimentica del fatto che se si parla di gender si sta parlando di una clamorosa e ideologica bufala scientifica, che provoca una lenta disgregazione dell'umano. Il cambiamento di linguaggio che manipola le coscienze fa il resto».
L’oscuramento della differenza tra maschile e femminile, l’uso di slogan accattivanti per ottenere consenso con il sostegno dei grandi media, il ruolo della fecondazione artificiale nel favorire la diffusione di un’ideologia che fa perdere il senso della natura umana, la necessità di riscoprire la bellezza della triade madre-padre-figlio. Sono questi i temi affrontati in Gendercrazia, nuova utopia. Uomo e donna al bivio tra relazione o disintegrazione (Sugarco Edizioni), il secondo libro di Chiara Atzori, da anni impegnata nel dimostrare l’inconsistenza scientifica e la pericolosità della teoria gender. La Nuova BQ l’ha intervistata.
Dottoressa Atzori, partiamo dal titolo: perché parla di “gendercrazia” e perché questa nuova utopia può essere più pericolosa delle altre che l’hanno preceduta?
Gendercrazia è un neologismo che mi sono permessa di utilizzare perché raccoglie in sé questa parola (gender) oggi negata, ma che in realtà permea tutta la “cultura” in cui siamo immersi, dalla televisione, ai giornali, al cinema e soprattutto Internet. I colossi del potere mediatico e finanziario come Apple, Facebook, Google, Microsoft da tempo sostengono il gender mainstreaming, cioè la visione secondo cui la sessualità binaria (maschio-femmina, uomo-donna) sarebbe superata e da sostituire con quella molteplicità di generi che non sarebbero più due, ma addirittura 72, secondo l’ultima classificazione. Parlo di utopia perché è una visione sganciata dalla scienza, dall’ecologia, elaborata per lo più da una ristretta accademia di stampo ateo, materialista, femminista radicale e omosessualista: un gruppo minoritario ma economicamente potente e ben supportato, che in pochi decenni è stato in grado di introdurre e imporre gradualmente questa ideologia nelle più diverse discipline (dalla filosofia alla psichiatria, dall’educazione alla sociologia di massa e all’economia). La pericolosità sta nel fatto che dichiarandosi “inesistente” ed essendo sconosciuto al grande pubblico, il gender non è chiaramente identificabile come potevano essere i totalitarismi del passato (comunismo e nazionalsocialismo), politicamente definiti.
Come si è arrivati ai concetti di gender e identità di genere e che consistenza hanno dal punto di vista scientifico?
Il momento di svolta è negli anni ‘50, a causa dell’azione congiunta di alcuni nomi dell’area sessuologica tra i quali Alfred Kinsey, un etologo, Robert Stoller, uno psicanalista che si occupava di transessualismo, e lo psicologo John Money che si occupava di casi di ermafroditismo. Il conio di “identità di genere” è attribuibile a Money, che rispetto alla formazione dell’identità sessuata teorizzava la preponderanza degli aspetti culturali-educativi (identità di genere) a discapito di quelli biologici (identità sessuale). Il suo nome è legato soprattutto al caso dei gemelli maschi Reimer, di cui uno – a seguito di una maldestra operazione di circoncisione che gli causò la perdita del pene dopo pochi mesi di vita – venne cresciuto come una “bambina” proprio su indicazione di Money, che per anni propagandò l’inesistente successo del suo esperimento quale prova dell’evidenza “scientifica” della sua teoria del genere come qualcosa di sganciabile dal sesso biologico. Fu un falso storico e scientifico smascherato solo dopo decenni, nonché un dramma per Reimer, che non si identificò mai nel sesso femminile e morì suicida. Eppure, i libri di pediatria, medicina, endocrinologia, sociologia e psicologia, per non parlare dei testi dei gender studies, si rifanno continuamente a Money per validare il concetto di separazione tra identità di genere e sesso: ci si dimentica del fatto che si sta parlando di una clamorosa e ideologica bufala scientifica.
Nel suo libro si sofferma, tra l’altro, sulla necessità di vivere il corpo come un dono, mentre il gender porta a una “disintegrazione” della natura umana.
Il concetto di corpo come dono riconosce un’evidenza: non si “sceglie” a quale sesso appartenere, ma si riceve dal patrimonio genetico e dalle interazioni anche prenatali il “pacco dono” da cui partirà l’interazione sensoriale, emozionale e poi cognitiva, che porterà alla consapevolezza di “essere” sessuati. La stessa psicanalisi sottolinea come la sessuazione psichica avviene proprio perché “appoggiata” a un corpo, e che questo corpo è in relazione dall’inizio del suo esistere, non solo come unione di spermatozoo e ovulo (cellule irriducibilmente legate a un corpo rispettivamente maschile e femminile) ma anche come “circoncisione simbolica di ogni essere umano”, testimoniata dalla presenza dell’ombelico.
Il gender, invece, disconosce il dono del corpo, la relazionalità, le radici che ci costituiscono, per privilegiare un’improbabile autodeterminazione, anche mediante la manipolazione chirurgica, endocrinologica, verbale, per non parlare dell’abbigliamento e dei gesti: tutto è considerato disponibile a piacimento, secondo una soggettività autoreferenziale, individualista, che pretende di “fare” del proprio essere la realizzazione di un desiderio atomizzato, privo di legame con il biologico. In questo senso il gender è la disintegrazione dell’umano, che per sua natura è sostanza individuale di natura razionale, relazionale, sessuata, simbolica e dotata di parola.
Che ruolo stanno avendo le biotecnologie nella diffusione dell’ideologia gender?
Le biotecnologie, gli avanzamenti delle competenze endocrinologiche, estetico-chirurgiche, bioprotesiche, la stessa possibilità della procreazione medicalmente assistita (“fare” o “avere” il bambino in provetta con tutti i corollari della compravendita, conservazione dei gameti e utero in affitto) offrono l’illusorietà del superamento della “dipendenza” dal biologico, quindi dei limiti posti dalla differenza tra i sessi.
Tra le principali contraddizioni del gender, lei evidenzia il modo di intendere l’orientamento sessuale. Perché?
Perché, da un lato, l’attivismo omosessualista considera l’orientamento gay o lesbico come innato, “ontologico”, “identitario” (maschi attratti da maschi, femmine da femmine); dall’altro, le stesse voci si uniscono, senza coglierne l’illogicità, al coro della “fluidità” del genere, alla frontiera del queer, del questioning, dell’indistinto e del fluttuante. Banalmente, una persona ragionevole dovrebbe domandarsi: se l’identità di genere è così fluida e fluttuante, potrà l’orientamento essere immutabile o intoccabile?
In che modo la manipolazione del linguaggio sta contribuendo a diffondere capillarmente questa ideologia?
Come in 1984 di Orwell la neolingua era la modalità per l’esercizio dell’ideologia, così oggi il continuo e martellante diffondersi di neologismi ambigui sul tema della sessualità, della famiglia, della filiazione (su cui viene richiesto dall’alto l’adeguamento generale) crea le condizioni ideali per agire sulle persone non informate adeguatamente o magari semplicemente insicure. Lo psicoreato gender (pensare diversamente dal gender mainstreaming) è qualcosa che già esiste, anche se viene chiamato con termini più inquietanti come “omofobia” o “discorso dell’odio”. Non per niente, per i giornalisti sono già state create dal gruppo di lavoro Lgbt (secondo la “Strategia nazionale” appoggiata dall’Unar) le linee guida per la corretta trattazione terminologica dei temi gender sensibili. Qualcosa che ricorda il MinCulPop di fascista memoria e d’altra parte si allinea al concetto gramsciano di egemonia culturale. Se si domina la cultura, si domina e si controlla il linguaggio, si detiene e si mantiene il potere, come tristemente ci hanno insegnato i totalitarismi del passato. La gendercrazia è un totalitarismo “soft”, ma non meno attento al tema dell’egemonia culturale e linguistica: e ciò è chiarissimo nei programmi scolastici e nelle modalità di revisione dei testi scolastici in chiave gender.
Lei scrive che sulla triade madre-padre-figlio è calato un mutismo mediatico. È solo un problema di condiscendenza all’ideologia dominante o si sta anche perdendo consapevolezza della necessità di questa triade?
La bellezza della triade uomo-donna-bambino, ossia quell’incontro della differenza grazie a cui si genera e si accudisce insieme il figlio, è fortemente oscurata, sia a livello simbolico che come fonte di responsabilità e impegno, a favore di una visione edonistica, ricreativa e individualistica della sessualità, intesa come godimento personale, soddisfacimento dei propri bisogni e non apertura all’altro e alla vita.
Esperti come Claudio Risè, Massimo Recalcati e Giancarlo Ricci hanno fatto notare come dalla rivoluzione sessuale del 1968 il depotenziamento del concetto di autorità è andato di pari passo con la deflagrazione di ogni figura maschile positiva, necessario limite simbolico alla simbiosi madre-bimbo ma anche protettiva cornice della famiglia. La figura paterna è stata la prima a fare le spese di questo mutismo mediatico. Oggi, anche la figura della madre è in crisi, in quanto femminismi, pari opportunità e carrierismi vari hanno per decenni invocato una parità che in realtà è diventata mascolinizzazione della donna, pretesa di equiparazione economica ma infine distruzione della peculiare e preziosa prerogativa della donna di potere essere colei che accudisce e fa crescere dentro di sé la vita che germoglia.