Mandela e la via del perdono
Nel discorso per il Nobel del leader sudafricano il riconoscimento di chi aveva fatto i conti col passato e la consapevolezza che il percorso da affrontare fosse non solo comunitario, ma anche personale.
Formatosi in legge, a soli venticinque anni Nelson Mandela aderì all’African National Congress (ANC) contrario all’apartheid e alla segregazione razziale. Arrestato più volte, nel 1964 venne condannato all’ergastolo per tradimento. Trascorse la maggior parte dei ventisei anni di carcere sull’isola di Robben Island, utilizzata dapprima come colonia per lebbrosi e più tardi per la detenzione di prigionieri politici.
Fu rimesso in libertà l’11 febbraio 1990 e tre anni più tardi conseguì il Premio Nobel della pace insieme a Frederik de Clerk (presidente in quell’anno). Memorabile fu il suo discorso per l’occasione. Comprese l’importanza di quel premio per il conseguimento degli obiettivi per cui aveva lottato insieme a tanti altri. Ringraziò gli organizzatori, si congratulò con il Presidente in carica del Sudafrica de Clerk che come lui aveva ottenuto il premio e ricordò chi aveva combattuto per gli stessi ideali trovando la morte: il reverendo Martin Luther King Jr («Anche lui lottò e morì per dare un contributo alla soluzione delle stesse grandi questioni che noi abbiamo dovuto affrontare come cittadini del Sudafrica»).
A nome di milioni di persone in tutto il mondo, del movimento anti-apartheid, di organizzazioni che avevano lottato da decenni Mandela ribadì il cuore della loro lotta: non era la lotta contro il Sudafrica o contro uno dei suoi popoli, ma era una battaglia per un ideale buono (la «veloce fine dei crimini contro l’umanità causati dall’apartheid»). Combattere per un ideale, non combattere contro persone. Lottare per l’affermazione del bene, lottare contro il male (chiunque lo compia).
Mandela prefigurava vicino il giorno in cui si sarebbe potuto festeggiare una delle vittorie più eccezionali del Novecento: quella contro l’apartheid. Quel giorno sarebbe stato «un grande passo avanti nella storia», avrebbe rappresentato «un giuramento popolare e mondiale per combattere il razzismo, ovunque questo si manifesti e qualunque forma esso assuma».
Il cuore del discorso per il Nobel è quello in cui Mandela prefigura la ricompensa per tutti coloro che hanno lottato:
La ricompensa non sarà misurata in denaro. (…) Sarà, e dovrà essere, misurata dalla felicità e dal benessere dei bambini, i più vulnerabili cittadini di ogni società e il più grande dei nostri tesori. (…) La ricompensa di cui abbiamo parlato sarà inoltre misurata dalla felicità e dal benessere delle madri e dei padri di questi bambini, che possono calpestare la terra senza paura di essere derubati o uccisi per motivi politici o economici, o ricevere uno sputo perché sono mendicanti. (…) Il valore di questo regalo per tutti quelli che hanno sofferto sarà, e dovrà essere, misurato dalla felicità e dal benessere di tutte quelle persone del nostro paese che avranno buttato giù il muro inumano che le divide. Questa grande massa avrà voltato le spalle al pesante insulto alla dignità umana che dà a qualcuno il ruolo di padroni e ad altri di servo, e trasforma ciascuno in un predatore la cui sopravvivenza dipende dalla distruzione dell’altro. Il valore della nostra ricompensa condivisa è, e sarà, misurata dalla gioiosa pace che trionferà, perché il diffuso sentimento di umanità che lega insieme neri e bianchi in una sola razza umana ci avrà confermato che potremo vivere come i «bambini del paradiso».
Il pensiero di Mandela si rivolse a tutti quanti come lui hanno lottato per il rispetto dei diritti umani, come Aung San Suu Kyi, Premio Nobel per la pace nel 1991, simbolo dell’opposizione non violenta al regime militare in Birmania, che ha cercato in ogni modo di ridurla al silenzio e di eliminarle gli strumenti di lotta. La richiesta rivolta al governo birmano era di rilasciare l’oppositrice al regime.
Mandela riconosceva poi la grandezza del presidente bianco Frederik de Clerk che aveva riconosciuto gli errori commessi dai governi del Sudafrica con l’imposizione del sistema dell’apartheid. Purtroppo, non tutti avevano ancora compreso gli errori, il percorso da affrontare era, infatti, non solo comunitario, ma anche personale attraverso un approfondimento della consapevolezza:
Ma c’è ancora qualcuno nel nostro paese che erroneamente crede di dare un contributo alla causa della giustizia e della pace rimanendo fedeli a quelle caratteristiche distintive dei gruppi, a quelle divisioni che hanno dimostrato di non portare a niente se non a un disastro. Rimane la nostra speranza che anche questi siano benedetti da una sufficiente intelligenza per capire che la storia non sarà mai cancellata e che la nuova società non può essere creata riproducendo il ripugnante passato. […] Questo deve essere un mondo di democrazia e rispetto per i diritti umani, un mondo libero dagli orrori della povertà, della fame, della privazione e dell’ignoranza, sollevato dalla minaccia e dal flagello delle guerre civili e delle aggressioni esterne e liberato dalla grande tragedia di milioni di persone obbligate a diventare rifugiati.
A questo punto Mandela arrivava all’affermazione paradossale che il Premio Nobel non gli era stato conferito per quanto già era accaduto, come di solito accade, ma per quanto sarebbe accaduto in seguito. Del resto, anche in campo scientifico molte scoperte mostrano solo negli anni successivi, spesso decenni più tardi, le possibili applicazioni e l’apertura di nuovi scenari. Nel caso dell’attività di Mandela le conseguenze erano da tutti auspicate e oggetto dell’appello di molti: «la fine del sistema dell’apartheid».
Mandela prometteva di dedicare il resto della sua vita per raccontare l’esperienza dolorosa del proprio Paese e documentare «che la normale condizione per un uomo è la democrazia, la giustizia, la pace, l’assenza di razzismo, l’assenza di sessismo, la prosperità per tutti, un ambiente salutare e l’uguaglianza e la solidarietà tra le persone». Prometteva di lottare perché mai più nessuno potesse essere «considerato come un miserabile della terra». Non potevano trionfare «l’indifferenza, il cinismo o l’egoismo»:
Fate sì che gli impegni di tutti noi dimostrino che non eravamo dei semplici sognatori quando parlavamo della bellezza della genuina fratellanza e quando dicevamo che la pace era più preziosa dei diamanti, dell’oro o dell’argento.
Dopo quel discorso per il Nobel la fine della segregazione era vicina. I tempi accelerarono.
Nel 1994 Mandela fu eletto presidente del Sudafrica. Terminò così l’apartheid in Sudafrica e iniziò un periodo di transizione ad uno Stato più democratico. Divenuto presidente, Mandela impostò una nuova politica di pacificazione, di riconciliazione, di perdono. Mandela mostrò alla nazione la via cristiana del perdono e della riconciliazione. Nel 1977 Mandela partecipava «ancora a tutte le funzioni in chiesa». Nel 1993 scriveva all’ex militante antiapartheid Ahmed Kathrada: «Condividere il sacramento (dell’eucaristia) che fa parte della tradizione della mia chiesa, era importante per me. Mi procurava sollievo e calma interiore. Uscendo dalle funzioni ero un uomo nuovo». E sottolineava: «Non ho mai abbandonato le mie credenze cristiane».