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L'AVVENTURA DEL VIAGGIO/10

Malebolge, la parte più sconosciuta dell'Inferno

L'ottavo cerchio da solo occupa un terzo dell'intera cantica, ma è anche il meno conosciuto. Qui troviamo fraudolenti, ipocriti, simoniaci, indovini, ladri. ma un trattamento durissimo è riservato ai seminatori di discordia, orrendamente sfigurati.

Cultura 11_08_2013
Malebolge

Ricapitoliamo in sintesi il settimo cerchio. Nel primo girone il Flegetonte con le sue acque iniettate di sangue accoglie i violenti contro il prossimo. I suicidi (secondo girone) sono trasformati in piante formando una selva ove corrono, inseguiti da cagne fameliche, gli scialacquatori delle proprie sostanze. In un sabbione incandescente, colpiti da una pioggia di fuoco, in parte giacciono supini, in parte corrono continuamente o siedono all’intorno quanti si sono macchiati di violenza verso Dio (o direttamente contro di Lui o contro natura o contro l’arte).

Si apre, in seguito, la parte più bassa, più sconosciuta dell’Inferno, quell’ottavo cerchio di Malebolge che da solo occupa per numero di canti un terzo dell’intera cantica. Dante vi giunge a volo sulla groppa di Gerione. Mostro triforme dalla faccia di uomo, dal corpo di serpente o drago e dalla coda di scorpione, sta a guardia del cerchio della frode. A chi lo incontra palesa l’innocenza del bambino, ma nasconde il pungiglione: proprio così l’inganno e la malizia possono agire indisturbati.

«D'ogne malizia, ch'odio in cielo acquista,/  ingiuria è 'l fine, ed ogne fin cotale/  o con forza o con frode altrui contrista./  Ma perché frode è de l'uom proprio male,/  più spiace a Dio; e però stan di sotto/  li frodolenti, e più dolor li assale».

Così, nel canto XI dell’Inferno, viene distinto il cerchio dei violenti da quello dei fraudolenti, che sono considerati più colpevoli e, quindi, collocati più in basso nell’imbuto infernale. L’uomo può usare la frode nei confronti degli sconosciuti (cerchio VIII) o di chi si fida di lui (cerchio IX):

«La frode, ond' ogne coscïenza è morsa,/ può l'omo usare in colui che 'n lui fida/ e in quel che fidanza non imborsa./ Questo modo di retro par ch'incida/ pur lo vinco d'amor che fa natura».
 
In dieci bolge o sacche sono stipate le anime di quanti hanno ingannato gli sconosciuti:

«ipocresia, lusinghe e chi affattura,/ falsità, ladroneccio e simonia,/ ruffian, baratti e simile lordura». «Luogo è in inferno detto Malebolge,/ tutto di pietra di color ferrigno,/ come la cerchia che dintorno il volge./ Nel dritto mezzo del campo maligno/ vaneggia un pozzo assai largo e profondo,/ di cui suo loco dicerò l’ordigno».

La fantasia di Dante si concreta, qui, in multiformi manifestazioni. I ruffiani e i seduttori vengono sferzati con scudisci da demoni cornuti, pena forse similare a quella cui erano sottoposti ruffiani e prostitute in quell’epoca.
Immersi nello sterco gli adulatori si percuotono con le loro stesse mani.
I simoniaci sono collocati a testa in giù in fori che richiamano i fonti battesimali medioevali e la pianta dei loro piedi è baciata dal fuoco.
Gli indovini, che vollero in vita prevedere il futuro, camminano ora con la testa rivolta all’indietro. Riferendosi a loro, scrive Dante: «Mirabilmente apparve esser travolto/ ciascun tra ‘l mento e ‘l principio del casso,/ ché da le reni era tornato ‘l volto,/ e in dietro venir li convenia,/ perché ‘l veder dinanzi era lor tolto».

I barattieri sono immersi nella pece bollente, guardati a vista da demoni che con forconi ne impediscono la fuga. Il grottesco contrappasso tocca a quanti si sono macchiati della pena di cui venne accusato  ingiustamente Dante quando, di ritorno dall’ambasciata a Roma presso Papa Bonifacio VIII, trovandosi ormai a Siena, seppe di essere  stato accusato in contumacia e condannato a pagare una multa, che sarà commutata poi in pena di morte se solo fosse ritornato nel territorio fiorentino.

Gli ipocriti camminano lentamente ricoperti di cappe di piombo dorate all’esterno.
I ladri corrono in una bolgia piena di serpenti, con le mani avvinghiate dietro la schiena.
I consiglieri di frode sono avvolti da fiamme a forma di lingua, simbolo di quell’inganno che loro perpetrarono di nascosto, spesso grazie all’uso della parola.

I seminatori di discordia sono orrendamente sfigurati, sbrindellati, con le viscere sovente penzolanti fuori dal corpo. Uno spettacolo macabro e raccapricciante è quello che si mostra a Dante sia per la condizione dei dannati che per il loro numero.

«S’el s’aunasse ancor tutta la gente/ che già, in su la fortunata terra/ di Puglia, fu del suo sangue dolente/ per li Troiani e per la lunga guerra/che de l’anella fé sì alte spoglie,/ come Livio scrive, che non erra,/ con quella che sentio di colpi doglie/ per contastare a Ruberto Guiscardo;/ e l’altra il cui ossame ancor s’accoglie/ a Ceperan, là dove fu bugiardo/ ciascun Pugliese, e là da Tagliacozzo,/ dove sanz’arme vinse il vecchio Alardo:/ e qual forato suo membro e qual mozzo/ mostrasse, d’aequar sarebbe nulla/ il modo de la nona bolgia sozzo».

L’oscenità e la brutalità della guerra sono qui descritte attraverso il furore distruttivo dell’odio e della cecità umana che, dimentichi dell’universale figliolanza con Dio, portano a deturpare e a distruggere la dimensione della corporeità che andrebbe salvaguardata con rispetto e consapevolezza dell’umana precarietà. Non sarà un caso se Dante utilizza per questi dannati un registro orrido che tende a sfumare nel volgare e nel comico, segni del disprezzo per chi pone l’odio, la vendetta e il sangue come legge della realtà, al posto dell’amore. Figura che colpisce per l’obbrobrioso aspetto è quella di Bertran de Born, trovatore celebre per le poesie dedicate all’esaltazione della guerra. Ora, «‘l capo tronco tenea per le chiome,/ pesol (sospeso, pendulo) con mano a guisa di lanterna».

I falsatori di metalli (tra cui anche gli alchimisti) si lamentano per gli atroci dolori provocati dalle malattie, si trascinano nella bolgia, ammassati e costipati come in un ospedale al culmine di un’epidemia; grattandosi per le croste, anziché attenuare la sofferenza, accrescono il fastidio. Scrive Dante:

«ciascun menava spesso il morso/ de l’unghie sopra sé per la gran rabbia/ del pizzicor, che non ha più soccorso;/ e si traevan giù l’unghie la scabbia,/ come coltel di scardova le scaglie/ o d’altro pesce che più larghe l’abbia». Qui nella decima bolgia sono collocati anche i falsatori di moneta tra cui ve n’è «un, fatto a guisa di leuto […]./ La grave idropesì, che sì dispaia/ le membra con l’omor che mal converte,/ che ‘l viso non risponde a la ventraia,/ faceva lui tener le labbra aperte/ come l’etico fa». 
 
Nelle prossime puntate ci soffermeremo dapprima sulla bolgia dei simoniaci in cui Dante incontra il Papa Niccolò III e poi sulla bolgia dei consiglieri fraudolenti dove il Fiorentino vedrà Ulisse, uno dei più grandi eroi dell’antichità greca.