"Maga" contro "Maga", la nuova frattura nella destra americana
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L'America Fest organizzata dal Turning Point Usa doveva essere un omaggio al fondatore del movimento Charlie Kirk, ma ha messo in evidenza una frattura dei Maga (Make America Great Again), con un'ala dissidente isolazionista e sempre più antisemita. Vance non si schiera, ma così rischia di perdere credibilità.
Il convegno annuale America Fest, organizzato dal movimento Turning Point Usa a Phoenix, in Arizona, doveva essere, nelle intenzioni dei promotori, l'occasione per ricordare solennemente l'eredità di Charlie Kirk come simbolo unificante e ispirazione del conservatorismo statunitense, e per sottolineare il ruolo fondamentale dell'organizzazione nel forgiare la classe dirigente della destra del futuro, sotto l'egida dell'amministrazione Trump.
La kermesse è stata, invece, il luogo dove è platealmente esplosa una divisione profonda all'interno della coalizione politico-culturale Maga (Make America Great Again, ndr) formatasi intorno all'attuale presidente. Si tratta di una divisione già latente negli anni scorsi, ma emersa con crescente evidenza dopo la tragica morte di Kirk, e che ricalca conflitti più volte verificatisi nella destra statunitense del dopoguerra: quella che in politica estera contrappone i fautori di una strategia "interventista" su scala globale degli Stati Uniti agli isolazionisti di tendenza nazionalista.
Tale linea di frattura, con profonde radici fin nelle origini della cultura politica americana, si era manifestata tra anni Sessanta e Settanta come polemica tra "paleoconservatori" e "neoconservatori": due tendenze tra cui la classe politica repubblicana, da Nixon a Reagan, aveva cercato di raggiungere un precario equilibrio. La presidenza di George Bush jr. aveva poi visto una decisa prevalenza dei "neo-con", e infine le fortissime reazioni negative alla loro strategia hanno prodotto la coalizione Maga trumpiana, fautrice di una nuova sintesi realista incentrata sulla prevalenza dell'interesse nazionale ("America first"). Ma, come più volte emerso nel primo e soprattutto nell'inizio del secondo mandato di Trump, la strategia internazionale Maga non coincide affatto con l'isolazionismo. Essa cerca di evitare ogni intervento militare diretto non necessario, ma prevede un forte impegno internazionale della superpotenza americana a difesa dei propri interessi primari e di quelli dei propri alleati, sia attraverso la diplomazia che la deterrenza militare, in un mondo strutturalmente plurale: come da ultimo ribadito dal documento sulla strategia di sicurezza nazionale pubblicato qualche settimana fa.
La guerra di Gaza - con il fermo appoggio dell'amministrazione Trump a Israele, pur nell'ambito della strategia pacificatrice degli Accordi di Abramo - e quella tra Israele e Iran, con il breve ma decisivo intervento dell'aviazione statunitense, hanno suscitato forti malumori nella frangia più isolazionista e "paleo-conservatrice" del Maga. Malumori amplificati a dismisura da alcuni personaggi dal grande seguito mediatico in passato molto vicini all'inner circle di Turning Point Usa: come, in particolare, Tucker Carlson e Candace Owens. Entrambi hanno sparato a zero contro il sostegno dell'amministrazione a Israele, alimentando nella base più radicale accenti antisemiti. La Owens, già allontanata dal movimento da Kirk, quando era in vita, ha addirittura messo in giro voci complottistiche che alludevano a una presunta matrice israeliana nell'omicidio del fondatore di Tp, e ha diffuso sospetti di complicità o connivenza sulla vedova Erika, suscitando la reazione sdegnata di quest'ultima. Tucker Carlson, dal canto suo, ha invitato nella sua trasmissione un estremista suprematista bianco antisemita come Nick Fuentes, senza contestare le sue argomentazioni deliranti. Nonché la ben nota propagandista anti-israeliana italiana Francesca Albanese.
Ora, all'America Fest di Phoenix un esponente di rilievo del giovane attivismo conservatore come Ben Shapiro, amico stretto di Kirk e co-fondatore con Matt Walsh dell'influente rivista The Daily Wire, ha reagito a questa deriva pronunciando un intervento durissimo contro Carlson e la Owens, e contro tutta la deriva a suo avviso pericolosamente estremista e antisemita di una parte del movimento Maga. Shapiro ha lanciato l'allarme contro la minaccia di una consunzione interna del movimento conservatore ad opera di "ciarlatani" che minano i suoi princìpi fondamentali e avvelenano le sue acque con calunnie. E ha sostenuto che chi, nel movimento, non condanna questi attacchi è un codardo.
Tucker Carlson, salito sul palco del festival lo stesso giorno, ha reagito al "j'accuse" di Shapiro atteggiandosi a vittima di censura e character assassination, denunciando l'incoerenza di una cancel culture proprio nell'organizzazione fondata da Kirk che la ha sempre accanitamente combattuta, e ribadendo di non essere antisemita, ma di guardare rigorosamente all'interesse nazionale, che a suo avviso sarebbe minato da una sudditanza verso lo Stato ebraico, e da interventi militari come quello contro l'Iran. Infine, ha insinuato (ricorrendo anche in questo caso a una teoria del complotto) che la polemica scatenata contro le sue posizioni fosse causata dal proposito di danneggiare la posizione di J.D. Vance dividendo in futuro la coalizione trumpiana, e pregiudicando quindi le sue speranze di elezione alla Casa Bianca.
Quando alla fine della kermesse lo stesso Vance ha preso la parola, ha denunciato un palpabile imbarazzo per il clima che si era creato, e ha cercato di ricomporre il dissidio, ma con modi che forse lo hanno reso ancor più evidente. Egli, infatti, ha sottolineato con enfasi come la coalizione trumpiana non voglia escludere nessuno, né sottoporre ogni suo aderente a "test di purezza", ma accolga chiunque, purché sia animato da sentimenti patriottici, anche se "controverso" o "un po' noioso". «Non ho portato con me - ha aggiunto ironicamente - nessuna lista di conservatori da denunciare o a cui togliere la parola». E ha insistito sull'insensatezza di "cancellarsi a vicenda". Invitando piuttosto l'uditorio, e gli elettori, a guardare ai traguardi raggiunti dall'amministrazione nel campo della lotta al woke e all'immigrazione, alla sicurezza, alla battaglia per il free speech. E chiudendo sull'evocazione di una politica "cristiana" come fondamento comune del movimento trumpiano.
Derubricando il contrasto alla volontà di qualcuno di soffocare il dibattito pluralista, Vance ha però in realtà in qualche modo legittimato le posizioni di Carlson, del quale è storicamente amico, e si è rifiutato di esprimere un parere sui contenuti della contesa. Pur ribadendo ancora, in una successiva intervista, il rifiuto dell'antisemitismo e la condanna ferma per le idee di Fuentes.
Questo "cerchiobottismo" rischia in effetti (senza ricorrere a spiegazioni dietrologiche) di metterlo in una posizione politicamente fragile nel prossimo futuro. Se la frattura su questi temi si allargherà, e da lui non verranno parole chiare sui princìpi irrinunciabili alla base della coalizione, nella prossima campagna presidenziale egli rischia di perdere molti voti di settori multietnici e liberali, pregiudicando quell'appeal verso un elettorato di confine che Trump nella sua seconda corsa elettorale era riuscito a costruire. E potrebbe perdere terreno anche nelle primarie contro una possibile candidatura alternativa di Marco Rubio: cattolico, ma alfiere credibile di una politica estera forte, ancorata ai valori occidentali, e rappresentante di un "fusionismo" equilibrato tra "paleo" e "neo" conservativismo. Se il Maga fosse eroso dal morbo "owensiano" e "tuckeriano", virando verso una sorta di woke di destra, di antioccidentalismo relativista, perderebbe il suo baricentro e la sua ragion d'essere.


