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SCALFARI

Ma Francesco non è Martini

Nel suo commento alla lettera di Papa Francesco dell'11 settembre, Eugenio Scalfari attribuisce al Pontefice una rivoluzione che non c'è. Il pensiero del Pontefice è ben distinto e distante da quello del cardinal Martini, che voleva una rottura col passato.

Ecclesia 12_09_2013
Eugenio Scalfari

Il commento di Eugenio Scalfari – e non solo il suo – alla lettera, pubblicata l’11 settembre, che Papa Francesco ha ritenuto d’indirizzargli conferma che il dialogo con i «Gentili senza cortile» – cioè con gli atei che, come il giornalista italiano continua a spiegare a proposito di se stesso, non solo non hanno la fede ma neppure la cercano – è difficile, pericoloso ed esposto a tutte le manipolazioni. Questi commenti, nella sostanza, scambiano Papa Francesco per un «alter ego» del cardinale Carlo Maria Martini (1927-2012). Sempre di gesuiti si tratta, e i vaticanisti ci assicurano che al conclave del 2005 Martini tifava per Bergoglio. Scalfari e i suoi amici esultano, e qualche critico cattolico ultra-conservatore ripete le stesse cose semplicemente cambiandole di segno. Ma è proprio così?

La figura di Martini – che ho conosciuto personalmente in anni lontani, prima che diventasse cardinale – è più complessa e tormentata di quanto si creda, ma l’aspetto dell’arcivescovo di Milano che qui interessa, e che Scalfari chiama in causa a proposito di Papa Francesco, è la sua idea che fosse necessaria una svolta radicale e un cambio di rotta sostanziale rispetto ai pontificati del beato Giovanni Paolo II (1920-2005) e di Benedetto XVI. Ecco qui la svolta, scrive ora Scalfari: nella lettera Papa Francesco gli avrebbe scritto cose inaudite, mai sostenute da alcun Pontefice, sul dialogo con la cultura erede dell’Illuminismo, sugli Ebrei e sulla coscienza.

Nello spirito di dialogo instaurato dal Pontefice, possiamo anche immaginare che Scalfari sia in buona fede, né si tratta evidentemente di un esperto di Magistero pontificio. Certamente Scalfari, da illuminista, può pensare che ci si trovi di fronte a cose nuovissime quando legge frasi come «è necessario accogliere le vere conquiste dell’Illuminismo» e che per la Chiesa questa accoglienza ha richiesto «una lunga ricerca faticosa». C’è solo un problema. Queste frasi non sono di Papa Francesco. Sono di Benedetto XVI, nel discorso natalizio alla Curia Romana del 22 dicembre 2006, un testo particolarmente importante e solenne. E nel discorso di Ratisbona dell’11 settembre 2006 – di cui ci si ricorda, sbagliando, solo per la parte iniziale relativa ai musulmani – Papa Ratzinger trovava le radici dell’Illuminismo nell’eredità dei suoi amati filosofi greci, i quali già avrebbero proposto «una specie di illuminismo, che si esprime in modo drastico nella derisione delle divinità che sarebbero soltanto opera delle mani dell’uomo».

Naturalmente, Benedetto XVI non è un nipotino di Voltaire (1694-1778). Non lo è neanche Papa Francesco. Entrambi propongono un dialogo con l’Illuminismo che distingua momenti esigenziali – domande – accettabili da risposte che invece sono a vario titolo sbagliate. Benedetto XVI, nel suo viaggio negli Stati Uniti del 2008 – ma già nel discorso natalizio alla Curia Romana del 2005, dedicato al Concilio Vaticano II – aveva distinto fra due tipi di cultura illuminista, valorizzando quella anglosassone che porta alla Rivoluzione americana, rispetto a quella europea, che invece porta alla Rivoluzione francese. Questioni complesse, su cui gli storici discutono. Ma dove Papa Francesco è in continuità sostanziale con Benedetto XVI, il quale a Fatima il 12 maggio 2010 aveva affermato che per impostare il rapporto fra Chiesa e modernità occorre sempre partire dal Concilio Vaticano II «nel quale la Chiesa, partendo da una rinnovata consapevolezza della tradizione cattolica, prende sul serio e discerne, trasfigura e supera le critiche che sono alla base delle forze che hanno caratterizzato la modernità, ossia la Riforma e l’Illuminismo. Così da sé stessa [al Concilio] la Chiesa accoglieva e ricreava il meglio delle istanze della modernità, da un lato superandole e, dall’altro evitando i suoi errori e vicoli senza uscita». Scalfari è contento del dialogo dei Papi con le «istanze della modernità». Ma i Papi non hanno mai smesso di denunciare anche gli «errori e vicoli senza uscita».

Sugli Ebrei, Scalfari sembra attribuire a Papa Francesco la prima critica nella storia del Magistero alla cosiddetta «teologia della sostituzione», secondo cui la Nuova Alleanza fra Dio e la Chiesa in Gesù Cristo ha «sostituito» totalmente l’Antica Alleanza fra il Signore e Israele, così revocandola. Anche qui è all’opera l’illusione ottica che fa scambiare le indubbie novità di stile e di accenti di Francesco per rivoluzioni dottrinali, che non ci sono. Semmai, nell’incontro con gli Ebrei del 24 giugno 2013, Papa Francesco ha usato sul punto espressioni perfino più prudenti rispetto al beato Giovanni Paolo II e a Benedetto XVI. La critica di una certa teologia della sostituzione – anche questo un tema complesso, su cui tra i teologi coesistono legittimamente opinioni diverse – da parte del beato Giovanni Paolo II parte dall’incontro con gli Ebrei a Magonza del 17 novembre 1980 e dal famoso riferimento di quel Papa al «Vecchio Testamento, da Dio mai denunziato». Ci sono sei discorsi dello stesso beato Giovanni Paolo II che vanno nella stessa direzione, e cinque di Benedetto XVI. Ma in realtà – lo hanno rilevato studiosi come don Pietro Cantoni – la critica della teologia della sostituzione è molto più antica, e se ne trovano precedenti ben prima del Vaticano II. Certo non l’ha inventata Papa Francesco a uso e consumo di Scalfari.

Infine, la coscienza. Anche qui Scalfari attribuisce a Papa Francesco una rivoluzione che non c’è. Benedetto XVI ha beatificato il cardinale oratoriano John Henry Newman (1801-1890) che, ai suoi tempi, fu molto criticato per una frase divenuta celebre della sua «Lettera al Duca di Norfolk», secondo cui «se fossi obbligato a introdurre la religione nei brindisi dopo un pranzo (il che in verità non mi sembra proprio la cosa migliore), brinderò, se volete, al Papa; tuttavia prima alla coscienza, poi al Papa». Un brano che, quando era prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il cardinale Ratzinger aveva commentato rivendicandone la piena ortodossia. «Questa dottrina sulla coscienza di Newman – scriveva autobiograficamente Ratzinger nel 1990 – è divenuta per me sempre più importante». Sì, il beato Newman aveva ragione e tutti – credenti e non credenti – siamo tenuti a seguire anzitutto la nostra coscienza. Ma la coscienza non è il luogo dell’arbitrio e del desiderio, non è – come si potrebbe ricavare da certi scritti del cardinale Martini – il luogo dove si trovano ragioni per contestare la legge naturale su temi come l’aborto o l’omosessualità. Al contrario, la coscienza è precisamente il luogo dove Dio ha depositato la legge naturale, la nozione del bene e del male. Quando Benedetto XVI nel 2010 si reca in Gran Bretagna per beatificare il beato Newman, ne celebra il suo dialogo (ancora) con le «istanze della modernità» e la sua profonda analisi della coscienza. Precisando però che «la via della coscienza non è chiusura nel proprio “io”, ma è apertura, conversione e obbedienza a Colui che è Via, Verità e Vita». Più o meno le parole che Papa Francesco ha scritto a Scalfari, cui ha proposto – alla fine – una catechesi sugli aspetti essenziali del Cristianesimo. Martini, con tutto il rispetto, talora scriveva cose un po’ diverse.