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ANDREOTTI/PROFILO

L'uomo che interpretò la Guerra fredda

La presenza di Giulio Andreotti sulla scena pubblica del nostro Paese in ruoli di governo coincide quasi esattamente con gli anni della Guerra Fredda, e non si spiega senza di essa. Con la Dc seppe guidare l'Italia dalle macerie del dopoguerra a un posto nel G7 (1975).

Politica 06_05_2013
Giulio Andreotti

Membro dell’Assemblea Costituente e poi del Parlamento della Repubblica Italiana da quando venne fondato fino alla morte che l’ha colto ieri all’età di novantaquattro anni, membro di tutti i governi che si sono succeduti a Roma dal maggio 1947 al luglio 1992, senatore a vita dal 1991 per nomina del presidente Francesco Cossiga, Giulio Andreotti si porta nella tomba un primato di longevità politica senza paragoni non solo in Italia ma nel mondo. È cosa poi evidente, ma vale comunque la pena di sottolinearlo, che si tratta di un primato di longevità politica democratica. Andreotti non era in Parlamento per chissà quale oscura trama, come poteva sembrare a sentire i suoi più sistematici detrattori, ma per volontà dei suoi elettori del Lazio che l’hanno sempre rieletto con un gran numero di preferenze fino a quando venne nominato senatore a vita senza la minima autorevole opposizione o protesta.

La sua presenza sulla scena pubblica del nostro Paese in ruoli di governo coincide quasi esattamente con gli anni della Guerra Fredda, e non si spiega senza di essa. Sulla vera natura della Guerra Fredda – che inizia formalmente con un famoso discorso pronunciato da presidente Henry Truman il 12 marzo 1947 dinnanzi al Congresso americano riunito in seduta congiunta e termina il 25 dicembre 1991 con lo scioglimento dell’Unione Sovietica – e in particolare sulle sue specifiche conseguenze per l’Italia c’è tuttora da noi una scarsa consapevolezza.

Anche se non guerreggiata (quanto meno in Europa, ovvero sul suo fronte centrale), la Guerra Fredda fu una guerra a tutti gli effetti, con tutte le radicalizzazioni e le distorsioni che sono tipiche di tale stato di cose. E incise poi in modo del tutto particolare nel caso dell’Italia, dove le aree d’influenza rispettivamente americana e sovietica passavano, caso unico nel mondo, all’interno del Paese, assegnato nelle conferenze dei vincitori della Seconda guerra mondiale al campo occidentale ma caratterizzato dalla presenza di un forte Partito Comunista. Un Paese che per di più confinava con la Jugoslavia del maresciallo Tito, regime comunista ma non di obbedienza sovietica, tendenzialmente neutrale e quindi corteggiato dagli Stati Uniti. A ciò si aggiunga che comunque insieme alla Germania e al Giappone l’Italia era una delle potenze sconfitte della Seconda guerra mondiale, perciò commissariata dai vincitori.

Grazie al rovesciamento delle alleanze seguito all’armistizio dell’8 settembre 1943 e alla susseguente “co-belligeranza” a fianco degli Alleati, e anche grazie alla pur apprezzabile Resistenza nelle zone soprattutto dell’Alta Italia rimaste sotto controllo tedesco fino ai primi mesi del 1945, amavamo ritenerci dalla parte dei vincitori, ma nemmeno i veri vincitori ci vedevano così, tanto e vero che l’Italia partecipò ai negoziati di Parigi per la stipula del trattato di pace in veste di Paese sconfitto.

Scelto meno che trentenne da Alcide De Gasperi come sottosegretario alla presidenza del Consiglio e quindi segretario del governo, Giulio Andreotti venne da lui sempre confermato in tale cruciale incarico. Caduto infine De Gasperi nell’agosto 1953, il suo successore Pella lo chiamò ad assumere il medesimo ruolo. Seguì la promozione a ministro dell’Interno nel successivo governo, il primo presieduto da Amintore Fanfani, inizio di una sequenza ininterrotta di incarichi ministeriali durata fino al 1992.

Forte del consenso di Washington, senza il quale non era allora possibile assumere ruoli-chiave nei governi di Roma, Andreotti governò tenendo realisticamente conto dei vincoli che ci derivavano dalla nostra condizione di Paese di prima linea della Guerra Fredda nonché appunto di Paese sconfitto della Seconda guerra mondiale. All’interno di tali vincoli il suo partito, la Democrazia Cristiana, e lui stesso riuscirono a ritagliare all’Italia degli spazi che le consentirono in trent’anni di passare dalle macerie della Seconda guerra mondiale all’entrata nel 1975 nel G7, il Gruppo dei sette maggiori Paesi industriali del mondo. 

Probabilmente tale merito sarebbe stato loro più immediatamente riconosciuto se avessero apertamente reso consapevole l’opinione pubblica dei vincoli entro i quali dovevano muoversi. Andreotti in particolare preferì invece tenere la gente il più possibile all’oscuro degli arcana imperii, dei segreti del potere, sommergendo la realtà dei fatti sotto un fiume di aneddoti. E questo non gli è stato di aiuto né a difendersi dai suoi nemici, né ad ottenere immediatamente stima per i suoi meriti e comprensione per i prezzi che dovette pagare non solo per suo conto ma anche per conto del Paese.