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LA DECISIONE DEL CIO

L’ultima dal Bar Sport: sì alle Olimpiadi unisex

Le Olimpiadi unisex. Questo si è inventato il Comitato Olimpico Internazionale: competizioni in cui maschi e femmine gareggeranno insieme. Presto assisteremo a gare di velocità dove sui blocchi di partenza troveremo atleti dal petto villoso accanto ad atlete pettorute. E già a partire dall’anno in corso. 

Sport 19_02_2016
La velocista indiana Dutee Chand

Le Olimpiadi unisex. Questo si è inventato il Comitato Olimpico Internazionale (COI): competizioni in cui maschi e femmine gareggeranno insieme. E non come capita nel tennis doppio misto, in cui due squadre miste si sfidano l’una contro l’altra, bensì assisteremo a gare di velocità dove sui blocchi di partenza troveremo atleti dal petto villoso accanto ad atlete pettorute. Le Olimpiadi unisex potrebbero soppiantare quelle classiche già a partire dall’anno in corso. Il condizionale per fortuna è d’obbligo perché la decisione del Coi non è vincolante per le singole federazioni e quindi nulla potrebbe cambiare.

Il Coi ha preso questa decisione per due motivi. Nel passato c’erano stati casi come quello della velocista indiana Dutee Chand e la sudafricana Caster Semenya che avevano fatto discutere. Infatti, queste atlete erano affette da iperandrogenismo, condizione in cui il corpo di una donna produce in modo più elevato del normale ormoni maschili. Anzi nel caso della Semenya pare – ma i risultati delle analisi rimangono ancora oggi riservati – che l’atleta sia una pseudoermafrodita, cioè abbia cromosomi femminili ma organi sessuali maschili. In parole povere queste sportive fisiologicamente assomigliano più a uomini che a donne, con grande vantaggio nella gare. Non per niente la Semenya fu campionessa del mondo degli 800 metri ai Mondiali del 2009 e argento olimpico a Londra. Per evitare quindi che donne mascoline potessero essere avvantaggiate, ecco che il Coi ha previsto che l’inserimento di un atleta nella categoria maschile o femminile dovrà dipendere non più dal sesso genetico di appartenenza e quindi dall’anagrafe, bensì dal suo livello di testosterone. 

Per partecipare a gare femminili il testosterone dovrà essere inferiore a 10 nanogrammi per litro e tale livello dovrà essere tenuto costante per un anno intero, l’anno che precederà le Olimpiadi. Dunque questa regola potrebbe già applicarsi a Rio 2016. Sarà sufficiente che l’atleta donna dia prova che il livello di questo ormone è stato tale dall’agosto del 2015. Ma la regola del “niente geni, solo ormoni” è stata proposta anche per risolvere il problema della partecipazione alle Olimpiadi dei transessuali. Questi, fino alla scorsa edizione, potevano partecipare, però era necessario che si fossero sottoposti all’operazione chirurgica. Anche in questo caso le gare risultavano falsate: provate voi femminucce a vincere una competizione di lancio del martello con un nerboruto transessuale.

Insomma era venuto a galla un particolare caso di doping naturale. La soluzione che fa riferimento al livello di testosterone è stata presa anche per motivi ideologici: «Dobbiamo assicurare il più possibile», fanno sapere quelli del Coi, «che gli atleti transgender non siano esclusi dallo sport. Il Cio deve garantire la correttezza delle competizioni, ma per far ciò non è necessario pretendere dei cambiamenti anatomici, incompatibili con lo sviluppo della legislazione e con diritti umani». 

Quindi non potremmo più fidarci dei cromosomi oppure dei caratteri sessuali primari o secondari (ovaie/testicoli, vagina/pene) per sapere se la pallavolista è davvero donna, ma solo dei suoi ormoni. Sopra i 10nanogrammi sei uomo, sotto sei donna. Se la regola Coi dovesse essere applicata alle relazioni sociali ne vedremmo delle belle. Maschietti che chiedono gli esami del sangue a belle bionde prima di invitarle a cena, signorine in gonnella (ne esistono più?) che fanno lo stesso con super palestrati se questi le corteggeranno (accade più?).

Ma torniamo alle Olimpiadi. La soluzione ormonale avrà delle ricadute non da poco. Nessuna donna assai androgina vorrebbe mai partecipare a una gara maschile, perché la chances di vittoria sarebbero quasi nulle. Ma il caso opposto potrebbe risultare invece assai vantaggioso. Infatti, non si può escludere che un atleta maschio – a rischio e pericolo per la sua salute – decida di abbassare il livello di testosterone e dichiararsi donna pur di primeggiare in qualche gara femminile. Insomma fatta la legge trovato l’inganno. 

Ma la ricaduta più significativa è sul piano culturale. Donna e uomo dal punto di vista biologico non sono più identificati da elementi genetici certi, bensì da sostanze chimiche che variando di quantità portano con sé la mutazione sessuale. È l’identità sessuale stabilita per convenzione e non riconosciuta come dato di realtà. È l’identità di genere liquida, così auspicata della teoria del gender che ora si cristallizza in documenti ufficiali. E’ la possibilità di entrare ed uscire da un sesso all’altro a proprio piacimento, tramite aggiustamenti farmacologici. È il trionfo del genere neutro in cui uomini e donne – gareggiando uno accanto all’altra - vengono ricompresi nello stesso insieme sessuale. È infine il superamento del sesso, dato che quello che conta non è più il sesso di appartenenza, bensì la quantità di un ormone nel proprio sangue. Perché una donna con molto testosterone rimane donna, checché ne dica l’autorevole Coi.