L'Ucraina e il disarmo morale dell'Occidente
La crisi dell'Ucraina ci mostra un Occidente nudo e disarmato di fronte a una grande sfida politica e potenzialmente militare. Abbiamo eliminato la parola "guerra" e ne stiamo vedendo le conseguenze. Come siamo arrivati sin qui?
Il segretario di Stato americano John Kerry è sbarcato ieri a Kiev, per promettere aiuto e protezione al governo provvisorio ucraino. Ha portato fiori per i caduti del Maidan. Ha pronunciato parole chiare di sostegno politico, elogiando «gli eroici ucraini che hanno resistito alla tirannia», rimarcando il diritto a determinare il loro stesso futuro, aggiungendo che: «È universale, è inconfondibile, questo appello alla libertà. In questa trasformazione, noi saremo al fianco del popolo dell’Ucraina». Anche economicamente: tanto per cominciare, il segretario di Stato americano ha promesso 1 miliardo di dollari. Ma seguiranno altri prestiti, anche da Fondo Monetario Internazionale e Unione Europea.
Alla fine, però, questo «Noi saremo al fianco del popolo dell’Ucraina» come si concretizzerà? La promessa di John Kerry non è gratuita e non è priva di rischi. Si tratta, anzi, di una presa di posizione estremamente pericolosa, perché contemporaneamente al discorso del titolare degli Esteri americano, il presidente russo Vladimir Putin disconosceva completamente quello stesso governo che Kerry appoggiava. Dichiarando che l’esecutivo Yatsenyuk sia arrivato al potere con «un’azione incostituzionale» e «una presa del potere con le armi», ha ribadito il principio espresso ieri dall’ambasciatore russo all’Onu Vitalij Churkin: il presidente legittimo è Yanukovych e nella sua ultima lettera chiede e caldeggia un intervento di truppe russe per ripristinare il suo governo. Siamo dunque di fronte a una situazione in cui gli Usa sostengono un governo ucraino che la vicina Russia disconosce.
La Russia si è dimostrata pronta a far valere la sua ragione con la forza, occupando manu militari la penisola di Crimea. Le esercitazioni ai confini con l’Ucraina sono finite, ma le forze armate russe restano in allerta, circondano le basi delle truppe regolari ucraine, intercettano e disturbano le loro comunicazioni, penetrano i loro sistemi informatici con hacker professionisti. La Russia, insomma, per sostenere il “suo” governo ucraino, ha tutti i mezzi per scatenare una guerra lampo nel cuore dell’Ucraina ed effettuare un regime change. Non si può dire la stessa cosa per gli Stati Uniti. A parte la dichiarazione di Barack Obama, che definisce il comportamento del Cremlino “antistorico” e una minaccia ancora molto vaga di rappresaglie economiche (fuori la Russia dal G8? Sanzioni? Congelamento dei conti russi all’estero? Assieme all’Ue?) la Nato non dispone di alcuno strumento di persuasione militare nei confronti della Russia nel Mar Nero. C’è attualmente una portaerei statunitense, in quelle acque. Ma la sua presenza è molto discreta: non è stata fatta notare la sua missione da alcuna dichiarazione e si trovava nell’area anche prima della crisi militare. Romania, Ungheria, Slovacchia e Polonia, le nazioni Nato più vicine all’area di crisi, non stanno esercitando alcuna pressione degna di nota. In ogni dichiarazione ufficiale di Usa, Ue e Nato non si legge nemmeno un minimo accenno alla parola “militare” quando si parla di possibili reazioni contro un’eventuale invasione russa dell’Ucraina. Quanto Vladimir Putin sia poco impressionato da questo atteggiamento si deduce da come abbia gestito la crisi finora: ignorando ogni “linea rossa” e procedendo dritto verso la sua meta.
L’assenza di ogni idea di esercitare pressioni militari è comprensibile. La Russia è attualmente la prima potenza nucleare del mondo. Dispone di un arsenale strategico che, contrariamente a quello statunitense (fermo agli aggiornamenti della Guerra Fredda) è stato modernizzato e rinnovato fino all’ultimo anno. L’atteggiamento occidentale, dunque, si può inserire nella categoria “legittima prudenza”: non rischiare un confronto con la prima potenza nucleare del mondo per una nazione che non fa neppure parte della Nato. Il fatto è che, a causa di un’altra arma a disposizione della Russia, i rubinetti del gas, da cui dipende il grosso delle forniture energetiche europee , i Paesi membri dell’Ue sono restii a usare pure l’arma economica. Perché la rappresaglia energetica potrebbe essere ancora peggiore della sanzione applicata.
A questo punto, perché prendere una netta posizione contro la Russia (riconoscendo un governo che, dal punto di vista di Mosca, è “golpista”) se non si hanno le armi per combatterla? La domanda è legittima. Ma ancor più legittima è la domanda precedente: come mai non abbiamo le armi per combattere la Russia? Messi tutti assieme, i Paesi europei, anche escludendo gli Usa, avrebbero una potenza produttiva e tecnologica soverchiante rispetto a quella russa. Il problema, dunque, non è di mezzi, ma di volontà. Abbiamo eliminato la parola “guerra” dal nostro vocabolario. In particolar modo abbiamo voluto seppellire definitivamente l’idea di un deterrente nucleare. Dimenticando che, fuori dal nostro piccolo Occidente, tutte le altre potenze usano ancora la forza dei loro eserciti per risolvere le controversie internazionali ( ). E sia Russia che Cina, per non parlare delle potenze atomiche emergenti, usano disinvoltamente il loro deterrente nucleare per intimidire: due giorni fa le forze missilistiche strategiche russe sono state poste, dichiaratamente, in stato di allerta. I continui tagli alla Difesa, negli Usa, in Gran Bretagna e in quasi tutti i Paesi della Nato, oltre allo smantellamento rapido degli arsenali atomici, possono sembrare un nobile sforzo pacifista, soprattutto in tempi di crisi. Il sogno di Obama per un “mondo senza armi nucleari”, le sue rinunce sullo scudo anti-missile fanno sognare due generazioni di pacifisti. Ma oggi ne stiamo pagando le conseguenze. Lo stesso discorso vale per l’energia. Non siamo dipendenti dal rubinetto russo per cause naturali. Lo siamo perché i movimenti ecologisti europei, italiani compresi, hanno lanciato crociate contro il nucleare, i rigassificatori e ora anche contro lo shale gas. Tutto ciò che ci potrebbe rendere più autonomi da Russia e altri Paesi altamente instabili nel Nord Africa viene preventivamente smontato da opposizioni popolari mosse dalle più svariate paure.
Ma il problema potrebbe essere ancora più a monte. Se non ci siamo dotati di forze armate degne di questo nome e non ci siamo mai dotati di piani energetici di ampio respiro, è anche per motivi culturali. Non sappiamo più rispondere alla domanda “chi siamo noi?”. Lo si vedeva già chiaramente dopo l’11 settembre 2001, quando si trattava di stare al fianco degli alleati statunitensi attaccati. “Chi siamo noi per dare lezioni all’Afghanistan?” “chi siamo noi per definirci migliori dell’islam radicale?” “che cosa è l’Occidente se non un’espressione geografica?”. Le stesse domande, nei confronti della Russia, si sentono risuonare anche oggi. Le possiamo leggere nei forum dei quotidiani online e su tutti i social network. Ma se non sappiamo più chi siamo noi, di sicuro, non possiamo nemmeno definire i nostri interessi, né dotarci dei mezzi necessari a perseguirli. E allora non abbiamo la possibilità di proteggere un governo ucraino, espressione di un popolo che, invece, crede ancora in noi.