L'onnipotenza è divina, non scientista
“Tu non credi nella scienza!” è il nuovo modo per gettare discredito su una persona. Ma la "Scienza" è fatta dagli scienziati, che come tutti gli uomini non sono esenti dal rischio di errori, fallimenti o falsificazioni: è piuttosto "antiscientifico" allora attribuire loro un potere che vorrebbe scalzare la sapienza di Dio.
“Tu non credi nella scienza!” è il nuovo modo per gettare discredito su una persona, senza nemmeno aver ascoltato quel che ha da dire. Almeno per circa 355 giorni all’anno, perché durante gli altri dieci, raggruppati attorno alla data del 25 aprile, gli italiani ritornano alla più classica accusa di fascismo, che è loro tanto cara. Ma per il resto dell’anno, l’antiscientifico è il nuovo fascista, e l’antifascista è chi professa fede nella scienza.
Se “non credi nella scienza” devi essere bandito dalla società civile, non puoi pretendere di fare l’insegnante, l’educatore, figuriamoci il medico, e sei un soggetto pericoloso anche se fai il garzone del fornaio. “Premetto che credo nella scienza” è la nuova tessera fascista da esibire per poter cercare di dire qualcosa nello spazio pubblico. E tuttavia non è così semplice la questione, perché di volta in volta bisogna aggiornare il contenuto di quella “scienza” in cui si professa di credere agli ultimi desiderata del main stream; sempre che si voglia continuare a sedersi a tavola con quelli che contano e non fare la figura dell’idiota, beccandosi del terrapiattista.
Fin qui, si potrebbe in fin dei conti sorridere, soprattutto se si considera un vanto non essere accolti in certi salotti e non godere della considerazione dei “sacerdoti” della scienza. Il dramma inizia invece quando quest’ultima, come ogni idolo che si rispetti, protesta le sue vittime sacrificali. Doppio dramma, a dire il vero: il primo riguarda chiaramente gli “effetti avversi” che si imprimono nella carne, nella psiche, nelle proprietà, nei risparmi di chi si è comportato come la scienza si attendeva; il secondo, forse più grave, ha a che fare con un’aggiornata versione della sindrome di Stoccolma: la scienza mi ha colpito, la scienza mi risanerà. Sempre e comunque fedeltà alla scienza, che non mi può tradire, anche se lo ha già fatto.
Qual è la ragione di questa fiducia a prescindere? Perché, come avremo modo di vedere nelle prossime domeniche, lo scientismo è divenuta la nuova narrazione (provvisoriamente) rassicurante degli uomini rimasti orfani del loro Padre, dopo che qualcuno ha fatto credere loro che Dio è stato ucciso. Anzi, non è mai nato. Una seduzione potente, a colpi di innovazioni tecno-scientifiche più immediatamente efficienti della Provvidenza divina; un’onnipotenza tecnica che prende il posto di quella divina e l’onniscienza della scienza che scalza la sapienza di Dio. La bestia che sale dalla terra, insegna l’Apocalisse, «operava grandi prodigi, fino a far scendere fuoco dal cielo sulla terra davanti agli uomini. Per mezzo di questi prodigi […] sedusse gli abitanti della terra» (13, 13-14).
Incominciamo col dire la verità più ovvia: la scienza non esiste. Sorry. Esistono gli scienziati, ossia uomini cultori di scienza. E, nonostante si sia persuasi del contrario, dal punto di vista dell’antropologia filosofica e teologica, essi non differiscono dai loro simili non-scienziati. Il che significa che, essendo uomini, non sono esenti dai difetti degli uomini. Eppure è convinzione comune che lo scienziato sia una specie di uomo super-partes, assolutamente oggettivo, immune da ogni condizionamento che non sia quello dell’evidenza dei dati, puro e retto in ogni suo pensiero ed opera.
E se anche il singolo scienziato fosse un poco di buono o comunque non un genio, ci pensa la Comunità scientifica ad azzerare l’errore dei singoli. Dove stia di casa questa “comunità” non lo sa nessuno, anche se nell’immaginario comune godrebbe di una sorta di ubiquità; anche il suo volto è piuttosto curioso: a volte si incarna nell’ospite del talk-show di turno, salvo poi sparire quando c’è qualche problema, ma confermare che il suo spirito vive in ogni ricercatore di “buona volontà”. Uno, nessuno, centomila.
Dobbiamo essere grati a Mattias Desmet, Professore di Psicologia clinica all’Università del Ghent, scienziato tra scienziati, per aver svelato il mito come mito. Nel suo Psicologia del totalitarismo (2022), menziona alcuni studi che riconducono a proporzioni reali le “evidenze scientifiche”.
Il primo è una meta-analisi compiuta da Daniele Fanelli su 21 studi che hanno indagato sulla falsificazione, manipolazione o altre alterazioni dei dati o del procedimento scientifico da parte dei ricercatori. Alla domanda se loro stessi avessero mai compiuto qualcosa del genere, intorno all’1,97% degli intervistati ha ammesso di aver falsificato gravemente almeno una volta una ricerca, mentre oltre il 33% ha riconosciuto di averla condotta in modo discutibile. Ma poiché gli scienziati dopotutto sono uomini, anche per loro non è semplice essere onesti, mentre è più facile svelare i difetti altrui. Ed infatti, alla domanda se fossero a conoscenza di analoghe scorrettezze nel lavoro dei colleghi, quasi il 15% ha risposto affermativamente quanto ad una vera e propria falsificazione, e fino al 72% per altre distorsioni del proprio lavoro. Il comportamento scorretto è stato rilevato con più alta percentuale nelle ricerche mediche e cliniche.
L’analisi di Fanelli si è occupata solo di errori intenzionali; ma a questi vanno aggiunti quelli che possono accadere involontariamente in una ricerca. Monya Baker dà questo verdetto desolante, nel suo articolo che riporta un’indagine di Nature (vol. 533, fasc. 7604, 25 May 2016, 452-454) su 1576 ricercatori: «Più del 70% dei ricercatori ha tentato, senza successo, di riprodurre gli esperimenti di un altro scienziato e oltre la metà non è riuscita a riprodurre i propri». La non riproducibilità di una ricerca significa che il suo risultato non è affidabile. Quali sono i fattori che contribuiscono maggiormente ad alimentare la non riproducibilità delle ricerche? Secondo il 60% degli intervistati, quelli principali riguardano un’eccessiva pressione a pubblicare lo studio (chissà perché) ed una raccolta eccessivamente selettiva dei dati. Ma tra questi fattori si ritrovano, per oltre il 40% degli intervistati, anche l’indisponibilità dei dati grezzi da parte del laboratorio d’origine e persino la frode.
Che quest’ultima sia un problema è piuttosto chiaro; ma non minore allarme deve destare il fatto che non si vogliano consegnare dati grezzi ad altri laboratori di ricerca. Al lettore questo fatto dovrebbe ricordare alcuni eventi recenti, di cui stiamo salatamente pagando le conseguenze, ossia la richiesta di Peter Doshi, ovviamente senza successo, a Pfizer e Moderna di avere i dati grezzi delle loro ricerche, con le quali proclamarono al mondo che i loro “vaccini” avevano il 95% di efficacia. Negare i dati grezzi significa ostacolare altri laboratori nella riproduzione dell’esperimento, con la possibilità che esso dia risultati diversi. Oltre al fatto che è possibile trarre da quei dati altre conclusioni. E questo diventa molto importante se sulla base di queste ricerche che falliscono quanto alla riproducibilità o non la consentono affatto, si basano politiche economiche, sanitarie ed ambientali.
Begly ed Ellis, per esempio, hanno espresso, in un articolo su Nature, il loro disappunto per il fatto che «gli studi clinici in oncologia hanno il più alto tasso di fallimento rispetto ad altre aree terapeutiche» e che dunque «un numero maggiore di farmaci con validazione preclinica non ottimale entrerà nelle sperimentazioni oncologiche». Ovviamente i soggetti – o meglio, gli oggetti – delle sperimentazioni siamo noi. Per questo è di estrema importanza comprendere quali grave conseguenze può portare – e sta portando da tempo – la deriva meccanicista e scientista del nostro tempo.