Londra apre al nucleare. E noi?
La Gran Bretagna ha rilanciato un piano di sviluppo delle sue centrali nucleari, investendo milioni di sterline nella ricerca di nuove tecnologie. L'obiettivo è far tornare Londra competitiva nel mercato del nucleare civile. Mentre da noi in agenda stanno entrando rinnovabili e decrescita felice.
Il governo liberal-conservatore britannico aiuterà le sue imprese a competere nel mercato dell’energia nucleare civile. Pur in tempi di ristrettezze, Londra stanzierà 18 milioni di sterline (21,2 milioni di euro) ai nuovi programmi di ricerca e sviluppo delle tecnologie nucleari e altri 15 milioni di sterline (17,6 milioni di euro) ad un fondo per sostenere le imprese che si lanceranno in questo mercato. La Gran Bretagna, infatti, dovrà affrontare un gigantesco programma di ricostruzione delle sue centrali. Ben 15 reattori saranno chiusi nel 2023 e si provvederà a costruire i nuovi al fianco delle vecchie strutture. In cantiere c’è già la centrale di Hinkley Point (in consorzio con la Edf francese), la prima ad essere ricostruita dal 1995. L’investimento complessivo è ingente: il governo di David Cameron stima che saranno necessari 930 miliardi di sterline (più di 1000 miliardi di euro) nei prossimi 20 anni, per la costruzione dei nuovi impianti, mentre altri 250 miliardi di sterline (294,3 miliardi di euro) dovranno essere destinati alle spese di smantellamento dei vecchi. Si tratta di soldi privati, in ogni caso: il governo ha promesso di non partecipare direttamente al programma.
Soltanto la ricostruzione di centrali potrebbe garantire 30mila nuovi posti di lavoro. E, per i ministri dell’Economia e dell’Energia, Vince Cable ed Ed Davey, la posta in gioco è alta, perché si tratta di «competere in un mercato globale dell’industria nucleare, con un giro d’affari da 1000 miliardi di sterline». Il ministro Vince Cable ritiene che sia fondamentale per il futuro energetico del suo Paese: «Il nucleare giocherà potenzialmente un ruolo crescente nel soddisfare la domanda di energia del Regno Unito. È una risorsa caratterizzata dalle basse emissioni di anidride carbonica e può contribuire alla sicurezza di una fornitura energetica nel lungo termine».
Per adeguarsi agli obiettivi europei di riduzione della Co2, la Gran Bretagna ha adottato una strategia mista: nucleare insieme ad energie rinnovabili. Queste ultime non sono viste come un’alternativa alla prima. Ed è proprio qui la grande differenza fra le isole britanniche e l’Europa continentale. E soprattutto con l’Italia che ha rifiutato, ancora una volta, con il referendum del 2012, l’opportunità di dotarsi del nucleare civile. L’incidente giapponese di Fukushima, dovuto ad un terremoto e ad uno tsunami di rara potenza, non ha provocato alcun morto. Ma in Italia è stato descritto dai media e vissuto dalla gente come una immane tragedia (dimenticando, anche cinicamente, le migliaia di vittime della catastrofe naturale). Nel nostro Paese siamo ancora paralizzati dal terrore che possa ripetersi un caso simile anche da noi. In Inghilterra, evidentemente, il governo e l’opinione pubblica hanno già abbondantemente superato questo trauma.
Non è una forzatura affermare che nel Bel Paese il blocco dell’energia dell’atomo sia ideologico più ancora che psicologico. La tendenza politica vincente, emersa dalle nostre ultime elezioni politiche, mira a tre obiettivi: risparmiare i soldi della politica e delle grandi opere (no alla Tav, al ponte sullo Stretto di Messina e alle centrali nucleari), rinnovare il piano energetico puntando alle energie “pulite” e mirare a una decrescita “felice”. Con il suo piano di rilancio del nucleare, Londra dimostra che le prime due di queste tre battaglie non escludano affatto la costruzione di nuove centrali. Primo: il piano britannico, come abbiamo visto, comporta una spese statale relativamente ridotta (per la ricerca e lo sviluppo delle tecnologie), mentre il grosso del lavoro sarà finanziato dai privati. Secondo: è la dimostrazione che fra le energie pulite, a bassa emissione di Co2, vi è anche quella nucleare. Gli inglesi la stanno rilanciando proprio per rispettare gli obiettivi ambientalisti fissati dall’Ue. Alla fine ci resta solo la scusa della “decrescita”, se proprio vogliamo mirare al risparmio energetico invece che alla produzione di energia con nuove centrali pulite.
La decrescita non è una teoria economica. È un’ideologia, intrinsecamente anti-cristiana e anti-capitalista. Teorizzata dal francese Serge Latouche si ripropone, infatti, di cambiare i “paradigmi” dell’economia e dei valori occidentali. Non mira alla crescita della ricchezza tramite l’incremento della produttività, ma a rendere la società più “felice” riavvicinandola allo stato di natura. Ricorda il filosofo illuminista francese Jean Jacques Rousseau, che vedeva nella proprietà privata e nel nascente capitalismo l’origine dei mali dell’uomo, strappato alla sua condizione naturale di “animale sociale”. Ricorda Thomas Robert Malthus, l’economista britannico che, non concependo l’invenzione di nuove risorse, chiedeva il loro rigido razionamento. I suoi discepoli odierni chiedono anche la diminuzione numerica dell’umanità tramite il controllo delle nascite, oltre che la riduzione e il “risparmio” o il “riciclo” delle risorse già prodotte. Sono queste ideologie (oltre alla paura di Chernobyl prima e Fukushima adesso) che ci impediscono di costruire nuove centrali nucleari. Gli inglesi, che non hanno mai letto Rousseau, hanno superato Malthus e non intendono seguire Latouche, si sono lasciati alle spalle queste catene ideologiche.