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TV

L'omosessualizzazione passa dalla tv

Una grande ricerca - 100mila intervistati in 77 paesi - certifica l'influenza dei programmi tv nel promuovere una mentalità gay-friendly tra gli spettatori.

Gender Watch 01_07_2018

Solo ad avanzare il sospetto che i mass media possano simpatizzare per la causa Lgbt, fino a ieri, si passava per ostinati complottisti, se non per direttamente omofobi da cui tenersi alla larga: in ogni caso, brutta gente. Da oggi però è diverso. Sono infatti da poco stati riportati, peraltro da una fonte di primo livello come il Corriere della Sera, gli esiti di uno studio promosso da Viacom, conglomerato di media statunitensi, che prova il ruolo decisivo che la comunicazione di massa riveste nella promozione dell’agenda arcobaleno (clicca qui).

Più precisamente, la ricerca – assai vasta, poiché condotta su 100.000 intervistati di 77 Paesi – ha rilevato come, tra chi non conosce una persona omosessuale, uno su quattro ammetta che i media in generale e la televisione in particolare abbiano contribuito a far sorgere in lui, rispetto all’omosessualità, sentimenti favorevoli. Fra quanti invece conoscono una persona gay, il 51% sostiene il matrimonio omosessuale (dato italiano 68%) e concorda sul fatto che «i diritti dovrebbero essere applicati a tutti».

Ora, il fatto che degli intervistati ammettano che la tv abbia un impatto positivo sulle persone gay in pratica quanto conoscerle dal vivo conferma che un’influenza arcobaleno i media la esercitino, eccome. D’accordo, ma come? Quali sono le strategie attraverso le quali il tubo catodico condiziona favorevolmente gli spettatori rispetto al mondo gay? Questo Viacom non lo dice e, per scoprirlo, occorre considerare più livelli, sia qualitativi sia quantitativi. Iniziando da questi ultimi, c’è da dire che negli ultimi decenni la produzione cinematografica arcobaleno è cresciuta esponenzialmente.

Il sito cinemagay.it, per rendere l’idea, oggi presenta nel suo catalogo quasi 4.000 film. Un numero enorme. Per non parlare – sempre stando sul piano quantitativo – delle serie tv in cui i protagonisti Lgbt non solo non mancano mai all’appello, ma abbondano. A stabilirlo non è stato qualche ente cattolico, ma la Gay & lesbian alliance against defamation che, in suo rapporto denominato Where we are on TV, ha rilevato come i personaggi arcobaleno nelle serie tv siano oggi il 4,8% del totale, percentuale che se da un lato magari continuerà ad apparire contenuta, dall’altro risulta comunque la più elevata degli ultimi 21 anni di rilevazioni. Non solo.

Va evidenziato come questo dato sia enormemente più alto di quello che si riscontra nella società, se si pensa che l’Istat, nel 2011, ha stimato gli Lgbt come il 2,4 per cento della popolazione totale, mentre l’istituto Gallup, nell’ottobre 2012, sondando un campione di oltre 121.000 persone, ha rilevato come sia il 3,3 per cento degli americani a dichiararsi gay, lesbica, bisessuale o transgender. Dunque i mass media presentano ai telespettatori personaggi arcobaleno con molta più frequenza di quanto questi possano, nella generalità dei casi, essere incontrati nella realtà.

Ma oltre al piano quantitativo, dicevamo, ne esiste uno anche qualitativo non meno importante. Anzi, fondamentale. Infatti oltre ad essere numerosi i personaggi Lgbt sono spesso caratterizzati – ci si faccia caso – da grande sensibilità, apertura mentale, intelligenza, creatività. Delle persone ideali, insomma, quasi da invidiare e, soprattutto, impossibili da non amare. Al tempo stesso, pure le tematiche care all’agenda Lgbt vengono sistematicamente presentate sotto una luce che sarebbe eufemistico definire positiva; tematiche anche eticamente sconvolgenti come l’utero in affitto.

«Proprio l’argomento dell’utero in affitto», scrive nel suo libro, La cultura della morte (La Vela, 2017), il giornalista Stelio Fergola, «è propagandato con grande energia dalle serie americane. Non che chiaramente se ne parli in ogni dove, ma quando ricorre viene proposto senza tanti complimenti e, ovviamente, in un’ottica completamente permissiva». Gli esempi al riguardo, in effetti, non mancano. In Friends, ricorda sempre Fergola, Phoebe, una delle protagoniste, decide di portare in grembo l’ovulo fecondato del fratello e dell’anziana consorte, mentre in Everwood una donna di nome Nina vende il proprio utero per consentire a una signora di 55 anni di avere un figlio.

Tutto ciò è presentato senza particolari criticità, anzi con toni sentimentali quando non lacrimevoli. E parliamo, lo si ripete, di un tema nella più edulcorata delle ipotesi spinoso come l’utero in affitto. Come stupirsi, allora, delle risultanze dello studio promosso da Viacom? La ricerca, pur utile, non fa che comprovare l’efficacia di un meccanismo ben oliato, in funzione da anni e più utile che mai. Dall’elezione di Trump all’affermazione, nel mondo occidentale, di alcuni governi «populisti», l’agenda arcobaleno appare infatti come congelata. Ma i mass media no, loro un supporto non lo fanno mai mancare. E si vede.

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