L’ombra di un patto toghe-sinistra per fermare la riforma Nordio
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Il recente discorso di Franceschini al Senato ha fatto sorgere il sospetto che il Pd si impegni a contrastare la riforma della giustizia in cambio di un atteggiamento meno aggressivo da parte delle procure, dopo i casi Sala e Ricci. Sarebbe un vulnus per la democrazia.

Nel pieno dello scontro istituzionale sulla riforma costituzionale della giustizia, il discorso pronunciato al Senato, nei giorni scorsi, da Dario Franceschini ha sollevato interrogativi inquietanti che vanno ben oltre le dinamiche parlamentari. Un ex ministro di lungo corso, abituato a misurare con attenzione ogni parola, non prende la parola in aula per caso, tantomeno in un momento così carico di tensioni. La sua scelta di rivolgersi non al governo, ma direttamente ai magistrati, non può essere interpretata come un gesto neutro. È sembrato, piuttosto, un appello in codice, un segnale rivolto a una platea silenziosa ma determinante: quella della magistratura, o almeno di una sua parte, la più politicizzata e ideologicamente orientata, quella che da tempo guarda con sospetto e ostilità al progetto del governo Meloni.
Non è un mistero che la riforma – con la separazione delle carriere, il sorteggio del Consiglio superiore della magistratura (Csm) e l’idea di una giustizia più netta nella distinzione tra giudicanti e requirenti – abbia acceso i riflettori sul sistema giudiziario come raramente era accaduto negli ultimi decenni. Ma il vero punto che inizia a emergere con forza è un altro, e ben più grave: il sospetto che esista una forma di baratto implicito tra il Partito Democratico e settori della magistratura. Un accordo non scritto, che si fonderebbe su un do ut des: l’impegno del Pd a contrastare la riforma del governo Meloni in cambio di un atteggiamento meno aggressivo da parte delle procure, o comunque di un occhio più indulgente sui casi che riguardano l’universo della sinistra.
Si tratta ovviamente di una ipotesi che nessuno osa pronunciare apertamente, ma che nelle stanze del potere giudiziario – specie nelle correnti più militanti dell’Associazione Nazionale Magistrati (Anm) – comincia a serpeggiare. I segnali ci sono e vanno letti con attenzione. Da un lato, l’insolita attenzione investigativa che nelle ultime settimane ha colpito figure politiche riconducibili al centrosinistra, come il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, e quello di Pesaro, Matteo Ricci, entrambi improvvisamente raggiunti da iniziative giudiziarie che, per tempistica e modalità, sembrano più che semplici coincidenze. Dall’altro, l’appello neanche troppo implicito di Franceschini, che ha parlato apertamente di “segnali” provenienti dalla magistratura, segnali che «separatamente e in modo autonomo» trasmettono «lo stesso messaggio». Un messaggio, per l’appunto, che suona come un invito, o forse un monito, a fare quadrato contro la riforma.
È lecito chiedersi: e se quei segnali fossero in realtà pressioni? Se quei procedimenti giudiziari fossero messaggi trasversali, diretti più ai vertici del Pd che ai singoli indagati? In questa chiave, i casi Sala e Ricci potrebbero essere letti come una forma di avvertimento in codice: “O vi schierate compatti contro la riforma, o nessuno è al sicuro”. Il sospetto che la magistratura possa utilizzare il proprio potere non solo per applicare la legge, ma per influenzare le scelte politiche di un partito, mina alla base il principio della separazione dei poteri. Montesquieu verrebbe spazzato via da una guerra tra istituzioni che nulla ha a che vedere con l’equilibrio democratico. L’idea che la magistratura possa in qualche modo orientare o indirizzare l’azione di un partito politico è forse l’accusa più grave che si possa rivolgere a un sistema democratico. E tuttavia, l’opacità con cui si muovono alcune correnti interne all’Anm alimenta proprio questa sensazione: una parte della magistratura, quella più apertamente schierata contro il governo, non si limita a fare opposizione sul piano delle idee, ma cerca alleati nei partiti, condizionandoli, blandendoli o minacciandoli. Il fatto che oggi i magistrati più critici verso la riforma temano che solo una parte del Pd – quella più vicina alla segretaria Elly Schlein – sia veramente disposta a combattere fino in fondo, conferma che l’alleanza è ritenuta necessaria, quasi strategica.
Ma cosa succede se il Pd tentenna, se il fronte garantista al suo interno prende le distanze, se i segnali di distensione si moltiplicano? È proprio allora che si intensifica il pressing, con inchieste che sembrano voler ricordare al Pd chi sono i veri arbitri del gioco. In questo clima, il discorso di Franceschini suona come una mossa per rassicurare la magistratura: “Siamo ancora dalla vostra parte, non vi tradiremo”. Ma è un gioco pericoloso, perché espone l’intero partito al sospetto di dipendere da equilibri esterni, di non essere più autonomo nella sua linea politica, ma condizionato da un potere giudiziario che non tollera deviazioni.
Tutto questo avviene mentre si avvicina il momento decisivo: il referendum confermativo che, nella prossima primavera, chiamerà gli italiani a pronunciarsi sulla riforma. È lì che si consumerà la battaglia finale. Ed è lì che la magistratura vuole il Pd compatto, senza esitazioni, senza sfumature. Ma un partito che si schiera sotto ricatto, o peggio ancora per convenienza giudiziaria, perde ogni credibilità democratica. In un’epoca già segnata da forti tensioni tra politica e giustizia, l’idea che possano esistere “intese tacite” tra partiti e procure rappresenta un rischio mortale per l’equilibrio delle istituzioni.
Non si tratta di difendere una riforma o di contrastarla, ma di garantire che ogni attore politico agisca liberamente, senza subire condizionamenti indebiti. Se davvero esiste un baratto, se davvero il Pd sta negoziando la propria opposizione in cambio di un’indulgenza giudiziaria, siamo davanti a uno dei più gravi strappi istituzionali della storia repubblicana. In gioco non c’è solo il futuro della giustizia, ma la stessa tenuta democratica del Paese. E forse proprio per questo è arrivato il momento, per tutti, di pretendere massima trasparenza, sia dalla politica che dalla magistratura.