L'Occidente sta perdendo la fede? Non dovunque
Uno studio dell'Università
di Chicago conferma sul piano sociologico la «profonda crisi
di fede che ha toccato molte persone» di cui parla Papa Benedetto XVI. Ma l'area che
in Occidente cresce non
è quella degli atei “forti”.
Il 18 aprile 2012, il National Opinion Research Center dell'Università di Chicago - un istituto particolarmente autorevole in materia di sondaggi di opinione, ancorché non particolarmente specializzato in materia di religione - ha pubblicato un importante studio sulle "Credenze a proposito di Dio attraverso il tempo e i Paesi".
Lo studio intende esplicitamente inserirsi nel dibattito sulla secolarizzazione, attraverso lo studio di una delle sue componenti: il "believing", cioè le credenze. Gli autori del rapporto sanno bene che la secolarizzazione è da anni studiata a tre livelli - "believing"(credenze), "belonging" (appartenenze, misurate principalmente dalla partecipazione ai riti religiosi) e "behaving" (comportamenti) -, le cosiddette "tre B". Sanno pure che la maggioranza dei sociologi pensa che in Occidente ci sia una forte secolarizzazione dei comportamenti - cioè ci si comporta in campo morale, sociale, politico prescindendo ampiamente dalla religione - e una debole secolarizzazione delle credenze, cioè molti occidentali credono ancora in qualche modo in Dio, mentre un campo molto controverso e su cui spesso infuriano vere "guerre delle statistiche" è quello delle appartenenze.
Lo studio di Chicago si occupa di Paesi "occidentali", tutti in Europa e nelle Americhe, più Australia e Nuova Zelanda, cui aggiunge Israele, le Filippine - ricomprese nell'indagine per il loro profilo culturale maggioritariamente occidentale e cristiano - e il Giappone. L'inclusione del Giappone appare discutibile, e lo stesso rapporto nota le difficoltà a valutare le risposte dei giapponesi, i quali spesso affermano di non credere in "Dio" perché comprendono la domanda come riferita al Dio delle religioni monoteistiche, mentre in realtà si tratta di persone religiose.
La caratteristica principale della ricerca è l'attenzione all'aspetto, definito «relativamente trascurato» negli ultimi anni, delle credenze. Molti sociologi danno per scontato che le credenze, a differenza delle appartenenze, siano relativamente stabili. Lo studio si chiede se questo sia proprio vero. Rispondere non è facile. L'analisi parte dall'International Social Survey Program (ISSP) e prende in esame solo Paesi per cui l'ISSP offre dati sulla religione in almeno due delle sue tre ricerche del 1991, 1998 e 2008. I ricercatori di Chicago non hanno dunque condotto una nuova indagine, ma hanno invece elaborato dati ISSP. Per alcuni Paesi molto importanti - uno fra tutti, il Brasile - i dati ISSP disponibili non sono stati sufficienti, così che questi Paesi non sono parte dello studio di Chicago. Inoltre, i dati ISSP soffrono dei consueti problemi delle indagini condotte prevalentemente per telefono. Le risposte sono spesso contraddittorie. Per esempio nel 2008 gli italiani che dichiaravano di «non credere in Dio» erano il 5,9% mentre quelli che affermavano di «non credere in Dio oggi e di non averci mai creduto» erano il 7,4%.
Queste contraddizioni non stupiscono chi ha abitudine a esaminare indagini sociologiche, ma devono introdurre un elemento di cautela in sede d'interpretazione. Anche il lavoro specifico del gruppo di Chicago - un esame comparativo dei dati del 1991, 1998 e 2008 - va letto con prudenza, dal momento che non sempre i campioni utilizzati in sede ISSP rimangono omogenei nel passaggio da una ricerca a quella successiva.
Letti con la cautela che s'impone sempre per ricerche di questo genere, i dati insieme confermano e correggono l'opinione corrente tra i sociologi che le credenze rimangano relativamente stabili nel corso del tempo. Per citare il rapporto, «la credenza in Dio è diminuita nella maggioranza dei Paesi, ma il declino è piuttosto modesto»: così modesto da non permettere conclusioni certe, tanto più considerando i limiti metodologici delle ricerche prese in esame. Una seconda conclusione è che ci sono «enormi variazioni da un Paese all'altro». Una terza è che in genere invecchiando molte persone si riavvicinano ala credenza in Dio, perduta nella giovinezza e nella mezza età. Il dato è noto, ma anche qui ci sono eccezioni, tra cui spicca il dato dell'Italia, uno dei pochi Paesi dove la maggioranza dei giovani maggiorenni minori di 28 anni (50,7%) dichiara di avere un rapporto personale con Dio. Per gli autori del rapporto si tratta di un indicatore di credenza particolarmente significativo, e il paragone fra il 50,7% dei giovani italiani classificati a questo livello «alto» della credenza e il 10,9% dei loro coetanei francesi - o anche il 29,4% dei giovani spagnoli - rubricati nella stessa categoria è impressionante, ancorché vada nella stessa direzione di altre indagini sociologiche degli ultimi anni.
Non si deve peraltro sottovalutare - pur ribadendo ancora una volta, a costo di ripetersi, la cautela con cui queste indagini vanno lette - il dato del lieve aumento di coloro che non credono in Dio. Il rapporto adotta una classificazione in sei gruppi religiosi, dagli atei privi di dubbi sul loro ateismo ai credenti "forti”. In Italia gli "atei forti" sarebbero l'1,7%, una cifra non in crescita, mentre gli atei "deboli" - poco interessati alla religione, ma non privi di qualche dubbio - andrebbero, a seconda di come si pongono le domande, dal 5,9% al 7,4%, con un aumento dell'1,7% nei dieci anni che vanno dal 1998 al 2008, e del 3,2% tra il 1991 al 2008. I dati sono anche qui molto diversi da Paese a Paese. Il numero di atei - forti e deboli - è sceso in Russia nell'ultimo decennio preso in esame in modo spettacolare (11,8%), con un aumento addirittura del 17,3% del numero dei credenti rispetto al 1991, ma il rapporto invita a non concluderne che c'è un generale ritorno alla religione nei Paesi ex comunisti. Nello stesso periodo gli atei sono saliti in modo notevole nella Repubblica Ceca (18,4%) - che contende ormai alla Francia il primato di Paese meno religioso del mondo -, in Lettonia (9,1%), e in una piccola misura (1%) anche in Polonia, dove però il rapporto cita esplicitamente il successo delle campagne di una Chiesa Cattolica particolarmente attenta ai dati sociologici e impegnata a contrastare i fenomeni di secolarizzazione con campagne mirate di nuova evangelizzazione.
Il rapporto nota la fortissima tenuta della religione nelle Filippine, dove i credenti in un Dio personale sono il 91,9% e gli atei "forti" lo O,1%, e per converso la tenuta dell'ateismo nelle regioni dell'ex Germania Est dove, benché i credenti siano in lieve aumento, gli atei rimangono saldamente in maggioranza (52,1%). La Germania Est appare l'area dove l'educazione all'ateismo comunista si è rivelata più persuasiva, mentre nella Repubblica Ceca - come ebbe a rilevare anche Benedetto XVI nel suo viaggio del 2009 - agli effetti del comunismo si sono aggiungi, non meno devastanti, quelli di un'ondata di relativismo, materialismo ed edonismo post-comunisti. Particolarmente dolorosa è la diminuzione dei credenti (del 15,4% rispetto al 1991), con un corrispondente anche se più modesto aumento degli atei (3%), in Irlanda. Il fenomeno ha certamente come causa principale l'enorme emozione destata dagli scandali dei preti pedofili, e c'è da temere che un aggiornamento al 2012 dei dati relativi al 2008 porterebbe a conclusioni ancora più allarmanti. Infine, il rapporto segnala una forte crescita dei credenti in Dio - del 23%, un record, rispetto al 1991 - in Israele, e la spiega - a mio avviso correttamente - non solo con l'aumento della fede in situazioni di tensioni e di guerra ma anche con il dato demografico. Gli ebrei ortodossi in Israele da decenni hanno molti figli, mentre gli ebrei secolarizzati ne hanno pochi. Alla lunga, i credenti aumentano.
Ci sono dunque nel rapporto di Chicago, insieme a dati relativamente positivi - uno per tutti, la tenuta della fede in Dio anche tra i più giovani in Italia, e dati sull'ateismo che nel nostro Paese rimangono comunque molto minoritari, specie quanto alla sua versione "forte" - campanelli di allarme che non vanno sottovalutati. La «profonda crisi di fede che ha toccato molte persone» di cui Papa Benedetto XVI parla nella lettera Porta fidei del 2011 è una realtà confermata dalle ricerche sociologiche. Ma l'area che cresce non è quella degli atei "forti", nonostante le campagne propagandistiche a favore di questa posizione, il cui successo è pressoché inesistente. Cresce l'area dei cosiddetti "atei deboli", lontani dalla religione - specie istituzionale - ma non privi di dubbi e d'incertezze, quindi almeno in tesi non insensibili a forme mirate di evangelizzazione. Dal "Cortile dei Gentili" all'Anno della fede, si tratta di una categoria di occidentali che la Chiesa tiene da tempo presente. «Non possiamo dimenticare - scrive ancora Benedetto XVI nella lettera Porta fidei - che nel nostro contesto culturale tante persone, pur non riconoscendo in sé il dono della fede, sono comunque in una sincera ricerca del senso ultimo e della verità definitiva sulla loro esistenza e sul mondo. Questa ricerca è un autentico "preambolo" alla fede, perché muove le persone sulla strada che conduce al mistero di Dio. La stessa ragione dell’uomo, infatti, porta insita l’esigenza di "ciò che vale e permane sempre". Tale esigenza costituisce un invito permanente, inscritto indelebilmente nel cuore umano, a mettersi in cammino per trovare Colui che non cercheremmo se non ci fosse già venuto incontro».