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TERRORISMO

L'Italia non è consapevole del pericolo Isis

L'Isis ha conquistato tutti i cardini del controllo della Siria e dell'Iraq, ma in Europa non abbiamo ancora una strategia. Se ne discuterà solo a giugno, come annuncia, da Riga, il ministro Gentiloni. Gli Usa si sono completamente disinteressati del caos mediorientale. Ma ci rendiamo conto che i nostri interessi sono diversi? 

Editoriali 24_05_2015
Esecuzione dei prigionieri iracheni

Da Riga in Lettonia, dove ieri si trovava, il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni  ha fatto sapere che il governo italiano "è  preoccupato, non solo da quello che succede in Siria ma anche per la forse ancora più minacciosa situazione in Iraq". Perciò, ha aggiunto, "sarà fondamentale una verifica sulla strategia che stiamo portando avanti"; e la prima occasione di confronto sarà il 2 giugno prossimo quando si riuniranno per questo a Parigi il segretario di Stato Usa, John Kerry, e i rappresentanti dei 60 Paesi alleati contro l’Isis.  

Di fronte a parole come queste, che costituiscono un vero e proprio caso di umorismo involontario, cascano le braccia, per non dire altro. Negli ultimi otto giorni l’Isis, noto anche col nome arabo di Daesh, ha conquistato due città-chiave come Palmira in Siria e Ramadi in Iraq e questi aspettano il 2 giugno per riunirsi a decidere sul da farsi. Ciò equivale a dire all’Isis: “Le nostre forze sul campo resteranno senza precisi ordini per i prossimi 10-12 giorni. Quindi avete 10-12 giorni di tempo per conquistare tutte le posizioni che potete”. Comprensibilmente per tutti coloro che hanno avuto la fortuna di visitarla, come anche noi, Palmira è innanzitutto un sito archeologico monumentale arabo-romano di una bellezza e di un fascino che lascia senza fiato. A parte questo tuttavia la città è un crocevia di importanza strategica: chi lo controlla tiene in pugno tutto il nord della Siria. Ramadi, da cui pure ci capitò più volte di passare viaggiando in auto tra Amman e Baghdad ai tempi del blocco dello spazio aereo iracheno, è solo un grosso centro anonimo, polveroso e segnato dalla miseria, ma in quanto a importanza strategica vale come Palmira: chi controlla Ramadi - situata là dove l’autostrada che viene da Amman e la strada che viene da Damasco si congiungono in direzione di Baghdad - tiene la chiave dei collegamenti della capitale irachena verso il Mediterraneo.

Se un esercito senza copertura aerea, che in effetti non è altro che un insieme di bande di fanteria leggera, ha potuto procedere quasi indisturbato in un ambiente desertico dove ci si muove senza alcuna possibile copertura, ciò è stato e sarà possibile solo per i motivi già ben chiariti da Gianandrea Gaiani. Ed è altrettanto evidente che così pure si spiega la lentezza con cui Coalizione a guida americana sta reagendo alla notizia dell’offensiva. In tale quadro sarebbe il caso di cominciare finalmente a rendersi  conto che dentro l’Unione Europea, dentro l’Occidente “atlantico”, coesistono interessi geo-politici diversi, e il nostro non è quello degli Stati Uniti e dei membri nordatlantici dell’Unione Europea. Agli Stati Uniti - che da un lato stanno ritirandosi dal Mediterraneo e dall’altro non hanno più bisogno del petrolio del Medio Oriente - non dispiace affatto la persistenza di un certo grado di instabilità e di attriti nel Levante. In tale prospettiva, nei limiti in cui tiene in scacco sia la Siria che l’Iraq, l’Isis è un utile strumento. Seppur in diversi e anche opposti ruoli (rispettivamente come avversari o come fiancheggiatori) l’Isis calamita le energie delle potenze regionali - dalla Turchia all’Iran, dall’Arabia Saudita al Qatar - che aspirano in certo modo e in certa misura a sostituirsi agli Stati Uniti. E che, tanto più di fronte all’inerzia dell’Unione Europea, devono comunque prendere qualche iniziativa.  

Chi paga le spese della situazione sono innanzitutto le popolazioni del teatro di guerra, ma poi anche i Paesi dell’Europa mediterranea a danubiana, per il quali il Levante sarebbe la via maestra del cruciale interscambio con l’Estremo Oriente. Perciò in politica estera il nostro Paese dovrebbe smetterla di fare da muto fanalino di coda dell’Unione Europea e assumere invece un ruolo attivo di punto di riferimento dei suoi membri mediterranei e danubiani. Occorre che dentro l’Unione tali Paesi diventino il soggetto propulsore di un grande progetto di pace e di sviluppo condiviso del Levante. Non sarebbe beninteso né giusto né opportuno pretendere che dell’interesse nordatlantico non si tenga più conto; nemmeno però lo è il non tenere in alcun conto l’interesse mediterraneo-danubiano. Di tutto questo il nostro attuale governo si rende conto? E se se ne rende conto è in grado di muoversi con efficacia in tale direzione? Temiamo di no, ma saremmo molto lieti se i fatti venissero al più presto a darci torto.