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MONSIGNOR TOMASI

«L'Isis va fermato subito. È in atto un genocidio contro i cristiani»

«Quello del Califfato è un tentativo di genocidio contro i cristiani, il diritto internazionale impone di fermarlo. Anche con l'uso della forza se necessario». «La presenza dell’Iran ai negoziati per la Siria è indispensabile». «Anche in Vaticano è cresciuta la consapevolezza della gravità della situazione». Intervista a monsignor Tomasi.

Esteri 08_04_2015
Monsignor Silvano Tomasi

«Non c’è dubbio che l’Isis debba essere fermato, per salvare i cristiani mediorientali dal genocidio e per evitare che la violenza si estenda ulteriormente». Monsignor Silvano Tomasi, Osservatore Permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite di Ginevra, che raggiungiamo al telefono mentre è in missione a New York, è molto chiaro. La gravità della situazione non ammette incertezze o titubanze, e ne è una testimonianza il crescendo di interventi di Papa Francesco a favore dei cristiani perseguitati. Le stesse parole del Papa degli ultimi giorni lasciano intendere che si veda ormai ineluttabile la necessità di un intervento armato per fermare le milizie islamiste. Anche monsignor Tomasi, che da anni si batte alle Nazioni Unite per sensibilizzare sulla persecuzione dei cristiani, nelle ultime settimane ha fatto sentire più forte la voce. E qualche risultato sembra averlo ottenuto.

Monsignor Tomasi, sembra che anche nelle sedi internazionali si cominci a realizzare che c’è una “emergenza cristiani”.
Indubbiamente qualcosa di nuovo c’è. A forza di pestare i piedi si è arrivati a poter parlare esplicitamente di cristiani come gruppo perseguitato. Due settimane fa qui a Ginevra siamo riusciti a far passare una risoluzione a difesa dei cristiani, ed è la prima volta che succede. Finora non si era mai voluto nominare specificamente i cristiani ma molto più genericamente i “gruppi perseguitati”. Invece questa volta la risoluzione presentata dalla Santa Sede insieme a Russia e Libano parlava espressamente di cristiani ed è stata adottata con il voto di una settantina di Paesi. La Francia, nell’aderire, ha addirittura proposto una seduta del Consiglio di Sicurezza dell’ONU su questo argomento e il 27 marzo il Patriarca di Babilonia dei Caldei, monsignor Louis Sako al Consiglio di Sicurezza ha fatto un discorso molto chiaro. Mi sembra che a questo punto si sia almeno riusciti nell’obiettivo di portare un’attenzione specifica sui cristiani, obiettivo di attacchi sistematici.

Anche in Vaticano sembra esserci una consapevolezza diversa. Solo pochi mesi fa saltava agli occhi la diversità tra la posizione molto allarmata e decisa dei patriarchi del Medio Oriente, che chiedevano anche un intervento militare immediato a difesa delle comunità cristiane, e la posizione molto prudente che si esprimeva a Roma. Ora anche gli interventi di papa Francesco, per insistenza e intensità, si sono avvicinati a quelli dei patriarchi mediorientali.
Da una parte c’è una situazione sul terreno che continua a evolvere e per i cristiani la situazione peggiora continuamente, dall’altra c’è stato anche un cammino nella Chiesa. Lo scorso anno abbiamo fatto due incontri a Ginevra con i Patriarchi del Medio Oriente per sensibilizzare la comunità internazionale. Qualcosa si è mosso e queste posizioni hanno certamente influenzato anche la Segreteria di Stato; poi il Papa ha convocato una riunione dei nunzi apostolici in Medio Oriente, tre giorni insieme (dal 2 al 4 ottobre 2014, ndr) da cui sono uscite alcune raccomandazioni per il Papa stesso. E poi c’è la sensibilità di papa Francesco che ha sentito la voce dei vescovi locali, di Siria e Iraq, che parlano chiaro e suggeriscono le posizioni da prendere. Ecco, questo grido è stato raccolto dal Papa che lo ha fatto proprio e ora lo vive in modo molto personale. 

Un passo dunque è stato fatto, quello di aver almeno posto con chiarezza il punto che bisogna fare qualcosa per difendere i cristiani in Medio Oriente. Ma che cosa si può fare concretamente e chi lo fa? Anche lei ha cominciato a parlare sempre più esplicitamente di uso della forza.
Certamente bisogna fermare l’Isis. Si deve fare di tutto per non usare la violenza, però a questo punto non si può escludere l’uso della forza. Bisogna essere chiari sul fatto che c’è in corso un tentativo di genocidio secondo la definizione contenuta nella Convenzione internazionale per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio (1948), per cui si parla di genocidio quando c’è l’intenzione di distruggere – in tutto o in parte - un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. È chiaro che l’Isis vuole eliminare i cristiani, e allora in questo caso se lo Stato non riesce a proteggere i suoi cittadini c’è il dovere della comunità internazionale a proteggere l’innocente. Il martirio si può anche accettare liberamente, ma non lo si può imporre, la comunità internazionale ha il dovere di difendere i diritti delle vittime attraverso gli strumenti di cui si è dotata: il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, l’Assemblea generale e così via. 

Lei ha fatto cenno a tentare anzitutto con metodi non violenti. Ma a questo punto quali sono realisticamente i margini diplomatici? Non si può certo sperare in una disponibilità dell’Isis al negoziato.
Certo. Ma una soluzione non violenta sta nel fare terra bruciata intorno all’Isis, tagliare qualsiasi sostegno politico, militare ed economico: togliere l’appoggio politico, bloccare il traffico d’armi, evitare di comprare da loro il petrolio anche se a prezzi stracciati. Se tutto questo non funziona allora come extrema ratio anche la forza può essere usata. Come ha detto papa Francesco, bisogna fermare la mano dell’aggressore ingiusto, e la questione è urgente per due motivi.

Quali?
Anzitutto la situazione sul terreno: l’Isis avanza, la situazione peggiora e i cristiani continuano a essere ammazzati. Inoltre non dobbiamo sottovalutare il fatto che non abbiamo davanti semplicemente un gruppo di terroristi, ma una forza militare che controlla un territorio. Più questa situazione perdura, più diventa una giustificazione, una ispirazione e un aiuto pratico per altri gruppi che provocano altri focolai di violenza nel mondo, che giurano fedeltà a questo Isis e cominciano ad ammazzare cristiani. E stiamo già vedendo questi sviluppi. Quindi questo Califfato va assolutamente fermato. Certo, anche l’intervento militare deve avere dei criteri chiari, come li ha definiti Giovanni Paolo II: non deve creare danni ancora maggiori, deve essere limitato nel tempo, e godere di un consenso generale, che sia cioè in vista del bene comune e non di interessi particolari contro altri interessi.

Un intervento militare dunque. Ma chi lo fa? La coalizione anti-Isis che è già operativa sta facendo finta di fare la guerra. In realtà gli interessi contrapposti dei tanti paesi in gioco paralizza qualsiasi tentativo di intervento efficace. E così l’Isis ha buon gioco ad avanzare.
È vero, la situazione è complessa, ci sono praticamente tre guerre diverse che si stanno combattendo allo stesso tempo: la prima è tra Stati Uniti e Russia per l’influenza sul Medio Oriente, con i rapporti privilegiati rispettivamente con Israele e con la Siria di Assad; poi c’è la guerra tra sunniti e sciiti, Arabia Saudita e Qatar da una parte e Iran e Hezbollah in Libano dall’altra; infine c’è la guerra interna in Siria tra il presidente Assad e l’opposizione. Portare attorno a un tavolo tutti questi interessi è ovviamente molto difficile, organizzare una risposta collettiva a difesa dei cristiani sarebbe un’impresa. Oggi le piste che si sta provando a battere sono essenzialmente due: da una parte il rafforzamento dell’esercito iracheno in modo che riesca a prendere il controllo del suo territorio, dall’altra lo stop all’espansione dell’Isis. Ma a questo scopo non si può prescindere dal fatto che per essere efficace l’azione contro il Califfato deve avere in prima fila i paesi interessati: la Giordania, la Turchia, l’Iraq, l’Iran, la Siria, in modo che la partecipazione del mondo occidentale non sia vista come un’invasione.

A questo proposito, ha colpito nel messaggio Urbi et Orbi del Papa il riferimento molto positivo all’accordo con l’Iran per il nucleare. Va inteso anche come segnale della necessità di coinvolgere l’Iran in un negoziato sul Medio Oriente? 
La presenza dell’Iran ai negoziati per la Siria è indispensabile. È il più grande paese del Medio Oriente, ha una tradizione diversa da quella sunnita, è pars maior del conflitto mediorientale nel conflitto tra sunniti e sciti. Un accordo senza l’Iran è impensabile. Ma c’è anche una seconda ragione riguardo la soddisfazione per l’accordo sul nucleare. A breve riprenderanno i negoziati sul Trattato di non proliferazione nucleare. La posizione della Santa Sede è per l’eliminazione di tutte le armi nucleari. Coinvolgere un paese importante come l’Iran significa rafforzare il cammino in questa direzione.