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San Francesco da Paola a cura di Ermes Dovico
Ora di dottrina / 157 – La trascrizione

L’insegnamento di Cristo – Il testo del video

San Tommaso si focalizza su quattro aspetti dell’insegnamento di Gesù, dalla predicazione ai Giudei (e non ai Gentili) al perché non abbia lasciato Suoi scritti. L’ordine posto da Dio e la mediazione della Chiesa. Scandalo farisaico vs vero scandalo: la preminenza della salvezza.

Catechismo 30_03_2025

Proseguiamo le nostre lezioni sui misteri della vita del Signore. Stiamo arrivando un po’ alla fine di questa prima parte dei misteri della vita di Cristo e tra qualche domenica inizieremo il tema più specifico che riguarda la passione, morte e risurrezione del Signore. Intanto continuiamo questa parte sui misteri della vita di Cristo, che precedono il grande mistero della Pasqua, con l’insegnamento di Cristo, a cui san Tommaso dedica la quæstio 42 della III parte della Summa Theologiæ.

Chiaramente il tema non è tutto l’insegnamento della predicazione del Signore, perché staremmo a parlarne una settimana… San Tommaso si focalizza su quattro aspetti di questo insegnamento e noi seguiamo la sua traccia, commentando appunto la quæstio 42. L’articolo 1 riflette su un dato importante che in genere non è così centrale nella nostra riflessione come invece dovrebbe essere; san Tommaso si chiede se era opportuno che Cristo predicasse soltanto ai Giudei e non ai Gentili. Ricordate la frase del Signore nel Vangelo di Matteo (15,24), dove Gesù dice «non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa d’Israele». Ricordiamo questa affermazione strana del Signore: perché strana? Lo stesso san Tommaso non si nasconde alcune ovvie obiezioni: la vocazione del Messia, del Cristo, infatti, era quella di essere luce delle nazioni, dove le nazioni sono appunto i Gentili.

Allora com’è possibile coniugare quel versetto evangelico con il Cristo profetizzato per esempio da Isaia come «luce delle nazioni»? Pensiamo anche alla profezia del vecchio Simeone, quando Gesù viene presentato al Tempio: nel cantico del Nunc dimittis ci si riferisce a Gesù come «Lumen ad revelationem gentium», il che si collega direttamente con la profezia di Isaia (49,6): « È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti di Israele. Ma io ti renderò luce delle nazioni perché porti la mia salvezza fino all'estremità della terra». Come rendere compatibili tra loro queste due verità? Da una parte, Gesù che dice «non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa d’Israele»; e dall’altra parte, la profezia di Isaia, confermata nel Nuovo Testamento, dice che Gesù è «luce delle nazioni».

Ancora, potremmo dire che in verità Cristo non si è rivolto solamente alla casa di Giuda, perché abbiamo alcuni episodi del Vangelo in cui il Signore stesso sembra non aver propriamente “rispettato” il suo principio: pensiamo al dialogo con la Samaritana (i Samaritani non erano della casa di Giuda, erano separati, “scismatici”) oppure all’incontro con la Cananea (i Cananei erano per eccellenza i rivali, i nemici degli Israeliti). Allora, cosa pensare rispetto a questo?

San Tommaso ci dà tre ragioni importanti. La prima, fondamentale, è che Gesù si è rivolto ai soli Giudei perché «con la sua venuta si attuavano le promesse fatte dall’antichità ai Giudei e non ai Gentili» (III, q. 42, a. 1). Questo è un principio fondamentale che ritroviamo ripetutamente anche nell’Antico Testamento: Dio è fedele. Nella sua fedeltà, Dio ha fatto le sue promesse alla discendenza di Abramo e in particolare alla discendenza di Davide, al regno di Giuda. Ha posto lì le sue promesse. E dunque l’Incarnazione è precisamente l’adempimento di questa promessa. Dio non è infedele. Ricordiamo anche la parabola degli operai che vanno alla vigna: Dio non è infedele verso gli operai della prima ora, infatti dà loro quanto promesso, dà loro quanto è giusto. Eppure già in quella parabola c’è un’indicazione: anche altri, che sono venuti dopo, riceveranno la stessa ricompensa. Dunque, la fedeltà di Dio a Israele doveva essere il primo segno di Dio, perché Dio è fedele. E Gesù Cristo è il Figlio di Dio e manifesta la fedeltà di Dio proprio annunciando, manifestandosi alle pecore perdute della casa d’Israele.

Ricordiamo che nel Credo, quando snoccioliamo in sintesi (chiaramente in sintesi perché si tratta di un Simbolo) i misteri della vita di Cristo, noi diciamo secundum Scripturas, «secondo le Scritture». Il che sta proprio a indicare: com’è stato promesso, così è stato compiuto. Dio è fedele, Dio non inganna, se anche l’adempimento della sua promessa sembra tardare, tuttavia, questo adempimento è certo.

Da questa prima verità importante la Chiesa ha sempre ricavato un principio ermeneutico fondamentale, che è stato poi racchiuso in questa: Novum in Vetere latet. Vetus in Novo patet. Cioè: il Nuovo Testamento si nasconde nell’Antico. E l’Antico si manifesta nel Nuovo. Ciò sta a indicare la piena relazione tra i due Testamenti. La Chiesa ha difeso l’Antico Testamento quanto il Nuovo; non ha mai accettato che qualcuno dicesse “questo non mi interessa, non ci interessa più perché abbiamo il Nuovo”. Oppure, come fece Marcione, “tagliamo questa parte perché ha un linguaggio che non corrisponde al Dio del Nuovo Testamento”. Questi sono riduzionismi anche un po’ presuntuosi, perché il Dio d’Israele è lo stesso Dio che si rivela in Gesù Cristo, non sono due dei, non sono due divinità in antitesi, in contrapposizione o semplicemente diverse. E dunque questa è una luce incredibile; quando noi prendiamo i Padri della Chiesa o anche gli autori medievali non avevano occhi che per questo: cioè, si parte dal Nuovo Testamento, si parte dalla luce di Cristo, che illumina l’Antico e grazie a questa luce comprendiamo l’Antico Testamento. E questa comprensione dell’Antico Testamento rende ancora più grande la comprensione del Nuovo, perché tutto l’Antico Testamento, ogni figura dell’AT e i fatti stessi dell’AT prefigurano Cristo, indicano Cristo.

La comprensione del NT sarebbe limitata se non attirasse a sé l’AT, così come l’AT sarebbe di fatto monco senza la luce data dal NT. Questi sono principi pacifici della comprensione della Chiesa, ma che hanno bisogno di essere rispolverati in continuazione perché non c’è generazione in cui questi principi non vengano attaccati con grave danno della penetrazione della fede da parte dei cristiani.

La seconda ragione per cui il Signore si rivolge ai Giudei e non ai pagani è «per dimostrare che egli veniva da Dio. Infatti “tutto ciò che viene da Dio è bene ordinato”, dice san Paolo. Ora, il retto ordine esigeva che l’insegnamento di Cristo fosse proposto prima ai Giudei, data la loro maggiore vicinanza a Dio nella fede e nel culto dell’unico Dio, e per mezzo di essi fosse trasmesso ai pagani, come anche nella gerarchia celeste le illuminazioni divine giungono agli angeli inferiori per mezzo di quelli superiori» (ibidem). C’è un ordine. Il Signore Gesù manifesta di venire da Dio precisamente perché istituisce, rispetta questo ordine. Questa è una cosa che nella nostra mentalità facciamo un po’ di fatica ad afferrare,: noi abbiamo l’idea del “tutto per tutti”, le mediazioni non ci piacciono, vogliamo avere il nostro rapporto diretto con Dio. Ma non è la modalità con cui Dio si comunica.

Già per gli angeli – lo abbiamo visto quando abbiamo parlato delle gerarchie e dei nove cori angelici – è così: non che gli angeli non abbiano un rapporto diretto con Dio, ma la conoscenza viene a loro mediante le gerarchie superiori. Nell’altra creatura intelligente e libera, cioè l’uomo, avviene qualcosa di simile: non c’è una conoscenza diretta, se non in alcuni casi, ma c’è una conoscenza mediata. Questo è l’ordine che Dio ha posto. Qual è questa mediazione? Ce lo dice san Tommaso: prima i Giudei; e dai Giudei ai Gentili. Ricordiamoci che l’annuncio di Cristo arriva alle nazioni, ai Gentili, tramite gli apostoli, i discepoli, cioè tramite dei Giudei.

Ancora san Tommaso, nella risposta alla seconda obiezione dell’art. 1, ci dice che «compiendo qualcosa per mezzo di altri e non da sé stessi, non si dimostra un potere minore bensì maggiore. Perciò il potere divino di Cristo si mostrò nella maniera più convincente per il fatto che egli comunicò ai discepoli tale efficacia nell’insegnare, da convertire a Cristo quei Gentili che nulla avevano udito di lui» (III, q. 42, a. 1, ad 2). Cioè, Cristo non annuncia direttamente ai Gentili, ma si serve di coloro che tra i Giudei avevano creduto, in particolare gli apostoli. E facendo così, ci dice Tommaso, non dimostra un potere minore, ma maggiore.

È un po’ come il maestro. La grandezza del maestro, la sua capacità sta proprio non solo nel formare dei discepoli, ma nel rendere questi discepoli a loro volta maestri; il successo del maestro è che dai suoi discepoli escano altri maestri. Questo non oscura la sua potenza, anzi la mette in luce. È una piccola immagine per farci capire questo principio: Dio manifesta la sua potenza non sempre agendo in modo diretto, come per esempio nella Creazione, dove Dio ha agito in modo diretto, almeno nel passaggio dal nulla all’essere; ma ama, sceglie di comunicarsi con delle mediazioni, istituendo Egli stesso delle mediazioni. Qui c’è tutto il senso della Chiesa, che poi andremo a vedere quando parleremo appunto della Chiesa e dei sacramenti. Ma intanto qui abbiamo gli elementi, le pietre di fondazione di questo principio.

Ancora, Cristo volle meritare il potere e il dominio su tutte le genti vincendo mediante la croce. Cioè, prima della croce, quindi prima del mistero della sua passione, morte e risurrezione, Cristo si è “limitato” ai Giudei proprio perché voleva che dalla sua croce emergesse la salvezza per tutti. Ed è dalla croce di Cristo che la salvezza passa ai Gentili. San Tommaso dice che è per questa ragione che nel Vangelo di san Giovanni, al cap. 12, abbiamo l’episodio di alcuni Greci che si avvicinano ad Andrea dicendogli che volevano vedere il Signore; in quell’occasione, Gesù dice: «Se il chicco di grano caduto in terra non muore resta solo. Se invece muore produce molto frutto» (Gv 12,24). Qual è il mistero di questa frase dentro la cornice che abbiamo appena descritto? I Greci vogliono vedere Gesù, ma prima che ciò avvenga il Signore deve passare dalla croce. Sarà la luce della Passione che renderà visibile il Signore anche ai Greci, ai Gentili.

Dunque, abbiamo visto un articolo ricchissimo su un dettaglio sul quale a volte non riflettiamo, ossia perché il Signore ha voluto rivolgersi alle pecore perdute della casa d’Israele. Non per escludere i Gentili, ma perché c’era questo ordine, con i significati che abbiamo cercato un po’ di mettere in luce.

Nell’art. 2, san Tommaso si sofferma su un altro aspetto dell’insegnamento di Cristo e cioè se Cristo avesse dovuto predicare ai Giudei senza urtarli. Curiosa come questione, ma importantissima. Noi sappiamo – pensiamo al Vangelo di Giovanni, ma anche agli altri Vangeli, quando iniziano le dispute con i Giudei – che Gesù urta eccome la loro sensibilità. Sembrerebbe strano e infatti san Tommaso presenta questa obiezione: il Signore è il nostro modello, ma che modello è se crea uno scandalo tra i Giudei? Poi, sembrerebbe anche un po’ controproducente come approccio, perché in qualche modo istiga la loro chiusura o addirittura sembra quasi irriverente, perché si rivolge così a coloro che erano gli anziani, i capi di Israele. È chiaro che nel Signore non si tratta di reazioni dovute a una collera mal gestita, a un sarcasmo amaro o a un desiderio di vendetta, tutte cose che caratterizzano invece più o meno frequentemente il nostro comportamento.

Nel Signore c’è invece un altro principio che lo porta a non evitare questo tipo di scandalo, che poi verrà chiamato “lo scandalo farisaico” per distinguerlo dallo scandalo vero e proprio, come adesso vedremo. Intanto il principio fondamentale che ci dà san Tommaso è che «la salvezza del popolo va preferita alla pace di qualunque individuo. Perciò quando qualcuno, per la sua malizia, impedisce la salvezza del popolo, il predicatore o il maestro non deve aver paura di urtarlo, pur di provvedere al bene della moltitudine» (III, q. 42, a. 2). Questo è il principio cardine: non si tratta di una rivalsa personale, di voler avere ragione a tutti i costi o di moti passionali non controllati, non purificati. Si tratta invece della necessaria salvezza della moltitudine, la quale non può essere sacrificata perché qualcuno che non vuole capire si scandalizzerebbe.

Nella risposta alla prima obiezione dell’art. 2, san Tommaso introduce un principio che poi porterà a quella distinzione fondamentale tra lo scandalo vero e proprio e lo scandalo farisaico, o tra lo scandalo e lo scandalo della verità. Leggiamo: «L’uomo non deve essere motivo di scandalo per nessuno, nel senso che non deve essere per nessuno occasione di rovina con azioni o parole meno buone» (III, q. 42, a. 2, ad 1). Lo scandalo è questo: la mia condotta non buona, le mie parole non vere; si tratta dunque di un nostro comportamento non buono, e in questo senso l’uomo non può mai essere oggetto e occasione di scandalo per il prossimo. «Se però – qui san Tommaso cita san Gregorio Magno nel suo commento a Ezechiele – lo scandalo viene dalla verità, bisogna piuttosto sopportare lo scandalo che abbandonare la verità» (ibidem). Cioè la verità, di suo, può creare scandalo, può essere pietra d’inciampo. Ma lo scandalo della verità non è lo scandalo vero e proprio, cioè lo scandalo peccaminoso, che viene da azioni o parole cattive, false, fuorvianti. Invece lo scandalo della verità viene dalla durezza del cuore di chi ascolta e che non vuole aprirsi al vero. Allora qui vale il principio che abbiamo detto sopra: non è possibile che per questo tipo di scandalo, di qualcuno, la moltitudine vada perduta.

Nella risposta alla terza obiezione, san Tommaso riflette anche su un altro aspetto, cioè risponde all’obiezione: non è allora una mancanza di rispetto nei confronti di qualcuno degli anziani? Non anziani chiaramente in senso anagrafico: gli anziani di Israele erano le guide, i capi, i pastori, tra l’altro con cariche volute da Dio stesso. San Tommaso dice: «Se costoro volgono il prestigio dell’anzianità a strumento di malizia peccando pubblicamente, allora vanno rimproverati apertamente e con durezza, come del resto fece anche Daniele [al cap. 13, nell’episodio dei due anziani che accusano falsamente Susanna], dicendo: “O invecchiato nel male”» (III, q. 42, a. 2, ad 3). Qui san Tommaso ci sta dicendo che il rispetto dell’anzianità è il rispetto della carica; ma se quella carica viene piegata a commettere il male pubblicamente, a propagandare la falsità, allora qui è lecito il rimprovero aperto e, talvolta, se è proporzionato, anche con una certa durezza, perché abbiamo non solo il pericolo di scandalo reale, verso i piccoli, ma abbiamo anche la perversione di una carica che invece è stata data per l’edificazione dei piccoli, per l’edificazione del popolo, non per lo scandalo.

Nell’art. 3, san Tommaso si chiede se Cristo avesse dovuto insegnare tutto pubblicamente o invece avere degli insegnamenti, diciamo così, “esoterici”. Esoterico vuol dire “riservato a pochi”, a pochi adepti. Sintetizzando, san Tommaso ci dice che l’insegnamento di Cristo fu rivolto a tutti. Il Signore, lo vediamo nei Vangeli, predica al popolo, predica anche ai discepoli, predica ai Giudei, anche ai capi di Israele, discute con i rabbi di Israele. Non è un insegnamento esoterico, solo per pochi. E tuttavia è un insegnamento non imprudente, potremmo dire, cioè non insegna a tutti nello stesso modo; infatti sappiamo che il Signore parlava in parabole; alcune di queste parabole le spiegava in separata sede al gruppo di discepoli. Che cosa dobbiamo cogliere da questo atteggiamento del Signore? L’insegnamento era per tutti, ma non per tutti allo stesso modo, anzi alle folle insegnava solo in parabole, ci dicono le Scritture. Come dobbiamo comprendere ciò? Qual è il senso del linguaggio parabolico?

Il senso della parabola è un porre degli elementi, ma non uno svelare pieno. Detto in altro modo, è un invito a scavare. Se non ci fosse nulla, se non ci fosse nemmeno la parabola, non ci sarebbe nemmeno l’invito ad andare più in profondità. Ma lo stesso avverrebbe se tutto fosse palese. Se tutto fosse palese, infatti, non ci sarebbe quel movimento interno di ricerca e dunque di desiderio di sapere. La parabola si pone a metà tra questi due estremi, cioè il non dire nulla e il dire tutto apertamente. E perché? Perché la verità è qualche cosa che richiede l’apertura dell’animo e della mente, non è qualche cosa che si può cacciare nella testa di una persona come un chiodo a cui si danno delle grandi martellate: non funziona così. La verità richiede un percorso, un desiderio, una fatica, una dedizione. E non può essere quindi data in modo immediato.

Ora, questa logica della parabola è la logica che la Chiesa ha sempre adottato nell’iniziazione cristiana. I catecumeni venivano iniziati ai grandi segni della fede, ma era un’iniziazione che poi doveva continuare per tutta la vita. La liturgia è uguale. La liturgia è una foresta di segni, di simboli che non devono essere immediatamente chiari a tutti: il principio che tutto debba essere capito subito è un principio anzitutto irrealistico perché non è possibile, non c’è nessuna cosa seria in questa vita che possa subito essere compresa da tutti. Pensiamo alla letteratura, all’arte: tutte le discipline richiedono un percorso nel quale la persona è chiamata a una dedizione, a una perseveranza, a una pazienza anche. La liturgia è la stessa cosa: non deve essere immediata, ci sono dei segni posti che devono essere conservati anche se non sono capiti subito perché il principio del segno non è “o lo capisco subito o lo tolgo”. Ma, se è un segno, vuol dire che segna, che indica qualcos’altro. Allora la persona è chiamata a percorrere la strada per comprendere quel qualcos’altro, senza la pretesa di capire subito o di adattare la liturgia o le Sacre Scritture alla propria capacità di comprensione: non funziona così, anzi l’esito di questo è un riduzionismo che poi porta alla banalità.

La religione cristiana è sempre stata intesa come un percorso di iniziazione continua, fino alla fine della nostra vita abbiamo questo da fare: farci colpire dai segni che troviamo nelle Scritture, nella liturgia; farci colpire da verità che magari capiamo un po’, intuendo che dietro c’è un altro mondo e dunque mi metto in moto per cogliere ulteriormente, per approfondire, per indagare, chiedendo a Dio la luce. È un cammino di discepolato. Il discepolo chi è? Il discepolo è colui che sta sempre ad ascoltare il maestro. Se il discepolo dicesse: “Io ho già capito tutto”, non è più un discepolo.

Nell’art. 4, san Tommaso si chiede se Cristo avesse dovuto mettere per iscritto il proprio insegnamento. Sappiamo che non è così, nel senso che i Vangeli non sono gli scritti di Gesù, cioè non li ha scritti Lui. E sembrerebbe che il Signore sia stato un po’, per così dire, “imprudente” a non fare questa scelta; perché la scrittura in fondo è solida nel trasmettere un suo insegnamento, come si suol dire scripta manent, ciò che è scritto è scritto, non viene poi cambiato. Ancora sembrerebbe “imprudente”, perché Dio, attraverso Mosè, aveva lasciato qualcosa di scritto, le Tavole della Legge.

Ora, in verità, san Tommaso ci dice che era conveniente che Cristo non scrivesse. La prima ragione è che «a Cristo, che è il maestro supremo, competeva di imprimere il suo insegnamento nel cuore dei suoi uditori» (III, q. 42, a. 4). Cioè, tutto lo zelo del Signore nella sua vita, nei suoi tre anni di vita pubblica, è stato quello di creare delle persone, dei cuori sui quali scrivere la nuova legge, non dei libri. Infatti, sappiamo che la nuova legge, come dice san Paolo nella Lettera ai Romani (8,2), è «la legge dello Spirito che dà vita», ed è una legge che è scritta nei cuori, non su tavole. E l’opera di formare persone è più elevata dell’opera di scrivere libri.

Seconda ragione: «Se Cristo avesse messo per iscritto il proprio insegnamento, gli uomini avrebbero pensato di misurarne l’altezza solo in base ai suoi scritti» (ibidem). Che è l’errore che ancora oggi si compie nel mondo cristiano-protestante ma anche, ahimè, in quello cattolico. Cioè, noi pensiamo che tutta la Rivelazione sia nella Scrittura, in ciò che è scritto; pensiamo che l’altezza dell’insegnamento del Signore è solo nello scritto: invece non è così. Cristo ha formato degli apostoli e li ha inviati; c’è quella che viene chiamata la Tradizione della Chiesa, e qui dunque vediamo da dove viene: non se l’è inventata la Chiesa in contrapposizione al mondo protestante, ma è la scelta di Cristo di formare persone, le quali a loro volta hanno formato altre persone, hanno insegnato, hanno istituito dei riti, delle discipline, eccetera. E all’interno abbiamo lo scritto che nasce da questa Tradizione, ma non la esclude, né la esaurisce.

«Terzo, perché il suo insegnamento arrivasse a tutti con un certo ordine: egli cioè insegnò direttamente ai suoi discepoli e questi a loro volta insegnarono a tutti gli altri uomini con la parola e con gli scritti» (ibidem). Di nuovo, c’è questo ordine di cui abbiamo parlato prima, questa mediazione che Cristo sceglie e – notate – che si trasmette attraverso gli apostoli «con la parola e con gli scritti» (cf. 2Ts 2, 15), cosa che ritroviamo chiaramente in san Paolo. San Paolo parla di insegnamenti scritti e non scritti: la viva parola degli apostoli e gli scritti. Di nuovo, troviamo il grande fondamento di quelle che sono chiamate “le due fonti della Rivelazione”. A molti non piace questo termine , “le due fonti”. Si può anche parlare di “due aspetti” della Rivelazione, ma, che si parli di “fonti” o di “aspetti”, essi rimangono pur sempre la Scrittura e la Tradizione orale che lascia le sue tracce evidenti nella storia della Chiesa, nei suoi riti, nell’insegnamento dei Padri.

La prossima volta vedremo la quæstio 43, che si occupa dei miracoli di Cristo, l’altra grande opera – insieme all’insegnamento – dei tre anni della vita pubblica del Signore.



Ora di dottrina / 157 – Il video

L’insegnamento di Cristo

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