Casa nel bosco, abuso di Stato nel segno del best interest
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I figli non sono dello Stato, ma dei genitori, anche se un po' freak. Invece, con la decisione del Tribunale di sottrarre ai genitori i 3 bambini perché privi di «frequenti relazioni sociali» si è stabilito un nuovo best interest da Stato totalitario.
Al di là di tutte le considerazioni etiche che si possono fare, un dato è indiscutibile: alla famiglia nel bosco, così come è stata ribattezzata comodamente dal media, è stato inferto un colpo traumatico grave. Di quelli che solo la ragion di Stato può infliggere per esercitare su una coppia di genitori un sopruso. I figli sono dei genitori.
È ipocrita, infatti richiamarsi all’articolo 2 della Costituzione che sancisce il diritto alla socialità quando altri articoli della Carta sono stati violati. Sicuramente il 30 (diritto dei genitori a mantenere, istruire ed educare i figli) e molto probabilmente il 33 (il diritto alla libertà dell’insegnamento, anche senza oneri per lo Stato).
Quello che si è consumato a Chieti dopo la decisione del Tribunale dei minori di togliere i figli ai due genitori anglo-australiani di Palmoli in provincia di Chieti che avevano scelto di vivere nella natura rinunciando alle “comodità della civiltà”, è la riprova che i figli, lo Stato li vuole perché li concepisce come suoi. E lo sono in ragione del fatto che quei bambini non sono stati allontanati per carenze gravi dal punto di vista igienico sanitario, nella cura della loro persona o a fronte di violenze attestate.
No. Lo stesso garante dell’infanzia, facendo visita due volte alla famiglia nel bosco, ha potuto constatare che, seppur in un contesto che difficilmente riusciamo a capire noi “civilizzati”, non erano emersi degli elementi di criticità che giustificassero un intervento così invasivo e traumatizzante per loro e per mamma e papà.
Sono stati allontanati dai genitori (anche se la madre ha avuto il permesso di stare con loro nella casa-famiglia che ora li ospita, pur essendole stata sospesa la potestà genitoriale) semplicemente perché – come recita la relazione dei servizi sociali – il disagio abitativo in cui vive il nucleo è dato dal fatto che la casa non ha l’agibilità, che i figli non hanno interazioni sociali frequenti né la coppia genitoriale ha entrate economiche fisse. Inoltre, presso lo stabile non sono presenti servizi igienici (c’è solo un bagno a secco all’esterno) né le utenze e infine – e questa sembra essere l’aspetto più grave – i minori non frequentano la scuola e le attività ricreative sportive.
Ecco svelato l’arcano. La Costituzione parla di diritto alla socialità, non di dovere. Eppure, sembra che a Catherine Birminghan e a suo marito Nathan Trevallion si rimproveri soprattutto questo: la qualità delle relazioni che intrattengono i figli deve essere certificata dallo Stato. È stato trovato così un escamotage per elevare un nuovo idolo sull’altare del best interest: le relazioni. Relazioni sociali che stando alla sentenza sono messe a rischio da elementi che «delineano un quadro di grave pregiudizio per l'integrità fisica e psichica dei bambini». Pregiudizi, dunque. E nessun riscontro oggettivo di carenza.
Se ci pensiamo, non è poi diverso dal concetto di qualità delle relazioni che è stato utilizzato per giustificare la soppressione del piccolo Alfie Evans e di tutti i bambini uccisi dalla giustizia inglese in questi anni proprio nel nome del best interest. La decisione, infatti, sembra proprio viziata dalla pretesa dello Stato, attraverso un giudice dei minori, di decidere di imperio sul bene di un minore non sulla base di rischi per la sua incolumità, ma sul pregiudizio che non è nel suo miglior interesse vivere non la vita felice, un po’ arcadica e un po’ freak che i genitori stavano dando loro, ma una vita codificata secondo degli standard che permettano allo Stato di esercitare su di essi un controllo totale in futuro: dovranno essere contributori, cittadini, perfetti ingranaggi di un sistema che noi chiamiamo civiltà e che non è possibile in nessun modo rifiutare, pena appunto la sottrazione di quei figli.
La vicenda di Palmoli suggerisce dunque che il criterio del best interest applicato alla vita dei bambini è entrato nel nostro Paese attraverso questa subdola forma, sicuramente prendendo a pretesto un caso limite e non privo di considerazioni etiche di poco conto.
Anzitutto la scuola. Non si tratta propriamente di homeschooling o di scuola parentale, che in Italia è permessa pur con molti paletti messi dallo Stato, ma di unschooling, un metodo educativo nato negli anni ’70 che si basa su una trasmissione esperienziale del sapere e non didattica. Sicuramente estremo e sicuramente non privo di rischi in ordine all’assolvimento dell’obbligo scolastico che è il requisito chiesto dal Ministero per questo tipo di scuola non pubblica, ma tale da giustificare un allontanamento così drammatico? In ogni caso su questo punto, l'avvocato della coppia ha già annunciato che proprio la documentazione relativa all'assolvimento dell'obbligo scolastico, regolarmente protocollata dal Ministero, verrà fatta valere in fase di appello. Dunque, perché allora questa fretta?
Poi, certamente, l’aspetto di questa ostinata volontà dei genitori di non adeguarsi a quelli che sono i dettami del vivere civile, che prevedono obblighi da assolvere perché è da essi che deriva il cosiddetto bene comune. Un individualismo che li ha portati a scontrarsi, inevitabilmente, con le strutture istituzionali e che non è privo di criticità. Ma anche un individalismo che è stato compreso dalla comunità del posto, di quell'Abruzzo forte e gentile che in passato aveva offerto alla famiglia del bosco una casa con tutti i comfort, ma che loro hanno rifutato dopo alcuni giorni di soggiorno perchè non «corrispondeva al loro stile di vita», come detto dal sindaco del paese.
E prima che la vicenda conoscesse questo triste epilogo, che, lo ribadiamo, ha come effetto una situazione di dolore e straniamento di tre bambini che fino a ieri erano felici con mamma e papà e oggi si sentono sradicati dal loro contesto famigliare, si poteva anche considerare che i genitori avevano sposato una filosofia di vita all’insegna del mito del buon selvaggio.
C’è molto, infatti di Rousseau in questa vicenda, perché la scelta di vivere in mezzo alla natura selvaggia riflette l’ideologia per cui l’uomo sarebbe intrinsecamente buono, ma si corrompe per mezzo della società, è la conseguenza di un’idea filosofica che porta con sé una deriva individualista e ambientalistica dell’uomo.
Ma - e non è casuale - la reazione dello Stato è anch’essa dettata dai furori della pedagogia rousseauviana e si è scaricata addosso a loro con una violenza cieca e totalitaria e perciò più grave. Entra in gioco, infatti, proprio secondo lo schema del papà della “Rivoluzione” il concetto di «volontà generale» rappresentata dallo Stato, il quale sa come indirizzare la società corrotta anche educando gli uomini con la forza. È la volontà dello Stato, infatti, in Rousseau come a Palmoli, a ergersi a liberatore anche di coloro come possono essere i coniugi del bosco attardati su posizioni giudicate retrograde e barbariche.
Che cosa si poteva fare? Sicuramente qui entra in gioco il ruolo dei servizi sociali, i quali non sono i gendarmi del pensiero né del vivere civile, ma dovrebbero aiutare i genitori a risolvere le criticità avendo sempre in mente come pilastro del loro agire il favor familiae, ossia la soluzione migliore non solo per i bambini, ma di tutta la famiglia. È questo che sembra essere mancato a Chieti in questi giorni. È mancata, da entrambe le parti in causa, quella che secondo la dottrina sociale della Chiesa viene chiamata la «soggettività relazionale», cioè quell’indispensabile struttura capace di tenere insieme l’uomo libero e responsabile in modo che si riconosca nella necessità di integrarsi e collaborare con i propri simili.

