Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
LETTERATURA

L'Infinito di Leopardi divenne anche musica per ben due volte

Tra la primavera e l’autunno di duecento anni fa, Giacomo Leopardi compose nella natìa Recanati la sua più famosa poesia: L’infinito. Quegli endecasillabi sciolti furono musicati da due compositori meno noti al grande pubblico: Gaetano Braga (1829-1907) e Mario Castelnuovo-Tedesco (1895–1968). 

Cultura 21_08_2019
Infinito, la targa a Recanati

Tra la primavera e l’autunno di duecento anni fa, Giacomo Leopardi compose nella natìa Recanati la sua più famosa poesia: L’infinito. I critici di professione ancora si scontrano per vedere in questo «singolare idillio» un’infinità di cose contraddittorie: cristiane o pagane, romantiche o classiche, buddiste o bibliche. Il primo degli Idilli è senza dubbio una poesia perfetta in cui l’acuto pensatore e poeta di Recanati, sulla cima di un colle e dietro una siepe, ferma il sentimento e la dolcezza dell’infinito. Quegli endecasillabi sciolti furono musicati da due compositori meno noti al grande pubblico: Gaetano Braga (1829-1907) e Mario Castelnuovo-Tedesco (1895–1968).

Il musicista abruzzese Gaetano Braga rallegrò molti salotti d’Europa e d’America, tanto da esser detto il «Re del violoncello» e menzionato nel racconto Il monaco nero di Anton Cechov. La sua fama di virtuoso, la sua facile vena melodica e il suo carattere gioviale gli aprirono le porte di Parigi, dove visse quasi quarant’anni. Nella capitale del Secondo Impero compose anche una raccolta di sei romanze da salotto, Six mélodies, dedicate al mezzosoprano francese Pauline Viardot, l’ultima delle quali su versi de L’infinito di Leopardi. Il volume fu poi stampato da Casa Ricordi nel 1863. In un aneddoto gustosissimo su quelle «serate pagate» per suonare «nella sontuosa casa» di «una ricchissima famiglia, molto potente sotto l’Impero», tratto dalle sue Memorie, Braga ci racconta dell’esecuzione di questa romanza.

Quella turba di belle e brutte signore e d'uomini eleganti […] se ne infischia dell’arte e degli artisti. La viscontessa Dreux-Brezé cantava a meraviglia il mio Infinito su parole del Leopardi, stampato a Parigi e a Milano or son trent’anni. Siccome questo «pezzo» non aveva le forme delle romanzette del tempo, una sera, stando io al pianoforte, sussurrai all’orecchio della Dreux-Brezé: «Una signora vi sta domandando che cosa canterete; rispondetele: Una melodia di Beethoven». E risi sgangheratamente quando quella signora, che non aveva capito nulla del mio Infinito, si avvicinò alla viscontessa: «Oh, ma chère, que vous avez bien interprete Beethoven! Comme on y reconnait l'auteur! Quelle musique sublime! Du reste, je connaissais ce morceau!». È buffo, ma molto triste che, per la fabbrica dell'appetito, si debba far musica innanzi a tali gonzi! Povero Braga! (Nuova antologia, Volumi 429-430, 1943, p. 84).

Ad ogni modo L’infinito di Braga è una delle sue pagine più ispirate. Il pianoforte esordisce e termina la romanza con due soliloqui tanto austeri quanto brevi; esso non si limita ad accompagnare, bensì conferisce all’intero pezzo una particolare intensità emotiva. Melodia, armonia e ritmo esprimono felicemente il senso di esclusione, dominante nella poesia di Leopardi, e la dolce calma del poeta, seduto a guardare come affascinato («sedendo e mirando»). La tensione si accumula al canto di «sovrumani silenzi» per scaricarsi poi su quello di «profondissima quiete».

Il fiorentino Mario Castelnuovo-Tedesco può esser considerato un compositore neo-romantico. È autore di musica corale, orchestrale e di opere liriche, come La Mandragola. La tipica melodiosità italiana insieme ad armonie ricche e spesso complesse sono elementi diffusi nella sua numerosa musica vocale: «la mia ambizione e, ancora di più, una urgenza profonda, − scrive nel 1944 all’inizio di un suo articolo per The Musical Quarterly (Vol. 30, No. 1, Oxford University Press, p. 102) − è sempre stata quella di unire la mia musica ai testi poetici che hanno destato il mio interesse e la mia emozione, per interpretarli e, allo stesso tempo, per coglierne l’espressione lirica». Prima di emigrare nel 1939 a Beverly Hills negli Stati Uniti per sfuggire alla legislazione antisemita fascista, nel 1921 compose la lirica da camera L’infinito su testo di Leopardi e la dedicò a Ildebrando Pizzetti, che era stato suo maestro di composizione.

Come fece nelle sue oltre duecento liriche per voce e pianoforte, anche qui Castelnuovo-Tedesco si preoccupa di servire la parola poetica. Vi si avverte un’atmosfera di aperta campagna, il senso degli «interminati spazi», del cielo, dell”«infinito silenzio» e del mare immenso. Nella sua autobiografia il compositore racconta (Una vita di musica, a cura di J. Westby, Cadmo, Fiesole 2005, p. 133):

Ci volle molto coraggio per metterlo in musica e Pizzetti, con cui ne avevo ripetutamente parlato, mi dissuadeva persistentemente. Ad un certo punto ho sentito che dovevo scriverlo e l'ho buttato giù in poche ore; ma poi avevo paura di mostrarlo al Maestro! Mi diressi a casa sua, esitante, ma il Maestro non era in casa; invece ho trovato [i suoi due figli] Bruno e Maria Teresa (ancora piccoli) che, curiosi come i bambini, lessero il titolo della poesia sul manoscritto nelle mie mani. «Per favore! − li avvertii, − non dite niente a vostro padre! Tornerò stasera». E così sono tornato la sera, ma non più coraggioso di prima, e ho evitato l'argomento. Durante la serata Bruno e Maria Teresa venivano da me e mi sussurravano all’orecchio: «Mario! Suona L’infinito!». Pizzetti alla fine capì che qualcosa non andava e chiese: «Che cosa significa questa tresca?». «Maestro, − risposi − non ho mai avuto tanta paura di venire da lei, nemmeno quando sbagliavo i miei esercizi di contrappunto! Ho musicato L'infinito, ma ricordo tutte le sue obiezioni! Ora glielo lascio. Se la musica pare senza valore, la butto via, come ho fatto con molte altre cose; se invece lei ritiene che sia degna della poesia, le chiedo il permesso di pubblicarla e dedicargliela!». Lo suonai, e poi Pizzetti mi disse, a bassa voce piena di emozione: «Pubblicalo e dedicalo a me». Questo è stato il primo pezzo che ho osato dedicargli. (Sono sempre rimasto incerto del finale che, nella prima versione, si concludeva con le parole «e il naufragar m'è dolce in questo mare» su una nota acuta nella voce e, in verità, solo a causa della difficoltà che alcuni cantanti hanno avuto nel cantarla senza stonare, ho provato una nota molto bassa; e nell'edizione ci sono entrambe! Sono, alla fine, entrambe plausibili, secondo una diversa interpretazione della parola «mare», che richiede in ogni caso un cambio di registro; ma non sono ancora sicuro di quale sia la migliore).

Buon ascolto!