L'India prigioniera delle sue stesse macchinazioni
Il governo indiano si rivela prigioniero della sua stessa tela. L'unico modo che ha per condannare i Marò è ricorrere alla legge anti-terrorismo. Ma i nostri ufficiali non lo sono e il governo di Delhi non li può dichiarare tali.
L’India ha perso un’altra occasione per prendere finalmente una decisione circa l’imputazione da contestare a Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, a conferma di come dopo due anni il caso marò abbia umiliato certo l’Italia imbrigliando però il governo indiano nella tela che lui stesso ha tessuto. Il procuratore generale ha confermato ieri davanti alla Corte Suprema la richiesta di processare i due marò italiani sulla base della Sua Act, la legge antiterrorismo e antipirateria, pur chiarendo che la legge in questione dovrebbe essere applicata senza una specifica richiesta di condanna alla pena capitale.
I legali della difesa hanno manifestato alla Corte la loro assoluta opposizione e dopo aver ascoltato gli argomenti delle due parti il giudice B.S. Chauhun si è riservato di prendere una decisione nei prossimi giorni ed ha fissato una nuova udienza al 18 febbraio prossimo. Un ennesimo rinvio dovuto forse al fatto che il giudice attende “ordini” dal governo in un procedimento penale da manicomio gestito da un tribunale speciale e in cui sono tre ministeri del governo di Delhi a litigare sui capi d’imputazione. Roba da far rabbrividire in qualsiasi Paese dove viga lo Stato di Diritto, ma evidentemente non in India anche se il diretto coinvolgimento dei ministri più importanti (Esteri, Interni e Giustizia) del governo risulta oggi un boomerang il Partito del Congresso.
Se processa i militari in base alla SUA Act, la legge anti terrorismo e anti-pirateria, l’India rischia pesanti ripercussioni internazionali. Oltre a non riconoscere l’immunità funzionale (in base alla quale per le azioni dei militari in servizio all’estero risponde lo Stato, non il soldato) ai marò l’India finirebbe di fatto per accusare l’Italia di essere uno “stato canaglia” dedito a terrorismo e pirateria. Il fatto che la pena di morte non venga richiesta imputando ai due militari solo atti di violenza che prevedono una pena fino a dieci anni e non omicidio non risolve certo la questione.
«Sono ufficiali della Marina e non pirati. Non possono essere giudicati in base alla legge antipirateria» ha detto l’avvocato Mukul Rohatgi aggiungendo che «dovrebbe essere loro consentito di tornare a casa». Palazzo Chigi sembra determinato ad alzare la voce, certo con appena due anni di ritardo, un gap difficile da colmare pur con l’intensa campagna diplomatica e mediatica lanciata da Roma nelle ultime settimane che ha visto persino i marò rispondere alle domande dei giornalisti dopo che per oltre 700 giorni erano stati tenuti lontano dai media.
«Il capo d'imputazione presentato oggi in India dall'Attorney General, che prevede di giudicare il caso dei due fucilieri di marina italiani sulla base della legge antipirateria è assolutamente sproporzionato e incomprensibile: assimila l'incidente a un atto di terrorismo. L'Italia non è un Paese terrorista» recita una nota. «Qualora fosse convalidata dalla Corte Suprema, questa tesi sarebbe assolutamente inaccettabile. Si tratterebbe di una decisione lesiva della dignità dell'Italia quale Stato sovrano, di cui i due Fucilieri della Marina sono organi impegnati nel contrasto alla pirateria conformemente alla legislazione italiana, al diritto internazionale e alle decisioni rilevanti del Consiglio di sicurezza dell'Onu».
L’India però non sembra disporre di strumenti diversi dalla SUA Act per perseguire i due fucilieri di Marina per un atto accaduto fuori dalle acque territoriali. Proprio per questa ragione la Corte Suprema di Delhi negò all’Alta Corte del Kerala la possibilità di giudicare i due italiani imputabili solo attraverso la legge federale contro pirateria e terrorismo con cui l’India si arrogò nel 2002 il diritto di perseguire questi reati in tutta la Zona economica esclusiva che si estende fino a 200 miglia dalla costa.
Senza il ricorso alla SUA Act gli indiani non hanno mezzi giuridici credibili per processare Latorre e Girone ma con quella legge si espongono alle critiche internazionali e alla possibilità che Roma si rivolga a un tribunale internazionale chiudendo le relazioni con l’India e ogni forma di riconoscimento delle sue autorità giudiziarie.
«Alla luce della decisione della Corte Suprema, il Governo si riserva di assumere ogni iniziativa. Dopo due anni senza un capo d'accusa, non intendiamo recedere dal nostro obiettivo di riportare quanto prima a casa Salvatore Girone e Massimiliano Latorre e di vedere riconosciuti la loro dignità ed i loro diritti» fa sapere Palazzo Chigi.
In panne nel portare avanti le accuse, il governo indiano non può però permettersi (almeno fino alle elezioni politiche di primavera) di chiudere la vicenda con il proscioglimento di Latorre e Girone o con il loro deferimento alla giustizia italiana. Il Partito del Congresso è già in difficoltà con le opposizioni, dai nazionalisti indù ai maoisti, e non può permettersi cedimenti a poche settimane dalle elezioni. Basti vedere come i comunisti del Kerala hanno subito strumentalizzato con manifestazioni dei pescatori la decisione del Ministero degli Interni di rinunciare ad accusare gli italiani di omicidio e di chiederne la pena di morte. Il rilascio di Latorre e Girone, anche con l’escamotage di un ritorno in Italia in attesa del processo, verrebbe giudicato dall’opinione pubblica un atto di debolezza da parte del Partito del Congresso.