Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
IL CASO

Liceo Cavour e oltre, fermare la carriera alias è carità

Roma, un professore del Liceo Cavour alla gogna per non aver accettato che una studentessa si identificasse con un nome maschile. Tutto nasce dalla carriera alias, che contrasta con la legge e alimenta l’inganno del gender, in primis a danno dei giovanissimi. Il dovere del governo e i consigli degli ex-trans.

Editoriali 12_11_2022
Liceo Cavour, Roma

Tiene banco in Italia il caso del Liceo Cavour di Roma. Qui, una studentessa di 17 (secondo l’Ansa) o 18 anni (secondo il Corriere) si è vista riconsegnare una verifica in classe con un segno rosso sul “nome di elezione”, sostituito dal suo nome vero, quello anagrafico. A correggere il nome è stato il suo professore di Arte, che di fronte alle proteste della ragazza - come riferisce lei stessa - le avrebbe detto: «Davanti a me ho una donna, non posso riferirmi a te in altro modo».

La studentessa si percepisce maschio da quando ha 15 anni ed è in attesa di iniziare un trattamento ormonale; ha mostrato invano all’insegnante il regolamento d’istituto sulla carriera alias, ossia quella procedura (diffusa pure al di fuori del mondo della scuola) che consente di usare nei registri e negli altri documenti scolastici un nome diverso da quello anagrafico, anche in assenza di documentazione medico-psicologica, così da assecondare le percezioni di quegli studenti che sentono di appartenere al sesso opposto al proprio. La carriera alias è in contrasto con la legge italiana, che chiaramente non prevede una doppia identità, neanche in via provvisoria. I cosiddetti “regolamenti” adottati da alcuni istituti italiani (tra cui appunto il Cavour) non derivano né da una legge né dal Ministero dell’Istruzione né ricadono nell’autonomia scolastica: più banalmente, i regolamenti sulla carriera alias sono un’invenzione delle organizzazioni Lgbt, che poi spingono perché le singole scuole li applichino.

Di qui si capisce che il professore del Cavour, oltre al buonsenso, aveva (ha) dalla sua anche la legge per opporsi all’uso di un nome falso. Ma buonsenso&legalità non è un connubio particolarmente caro al mainstream mediatico e difatti il professore è stato sottoposto alla solita gogna che si registra in casi del genere. Le accuse, da più parti, si possono immaginare: sessismo, discriminazione, transfobia, eccetera. Secondo la ragazza, che lamenta un disturbo nell’apprendimento, il prof - durante il diverbio - le avrebbe a un certo punto anche «urlato che la verifica è un documento ufficiale», parole cui sarebbero seguiti il pianto e «un attacco di panico». Non sappiamo chi sia l’insegnante in questione né siamo in grado di dire se i suoi modi siano stati sempre appropriati. I resoconti giornalistici riportano solo la versione della studentessa e di altri compagni di scuola, tra cui una ragazza - un po’ più fuori dal coro - che timidamente dice all’Ansa: «Secondo me su alcune cose alcuni nostri compagni di scuola esagerano. Amplificano alcuni episodi, non è il caso di questo ragazzo discriminato [la studentessa, ndr], ma a volte succede. Facilmente puoi passare per omofobo o razzista».

In linea generale, quel che si può dire con certezza è che la difesa della verità va fatta con carità. Nel caso di specie, se il professore sia riuscito a mantenere sempre presente anche il secondo aspetto - come accennato - non sappiamo dirlo. Ma questo non giustifica né la gogna di cui sopra né può portare a dimenticare l’elemento di partenza: l’insegnante, che evidentemente ha la sua coscienza e il suo compito educativo, ha fatto bene a cancellare il nome che non corrisponde all’identità della ragazza, agendo in accordo sia alla legge statale sia alla legge morale naturale (di emanazione divina, quindi preminente).

Eppure, si invocano «provvedimenti» contro il professore, una richiesta proveniente tra gli altri da Pietro Turano, portavoce di Gay Center, che parla ingannevolmente di «diritto» violato. Sulla vicenda ha rilasciato una dichiarazione anche il ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara: «Il Ministero sostiene tutte le opportune verifiche che riterranno di mettere in campo il dirigente scolastico e l’Ufficio Scolastico Regionale, per appurare se si sia in presenza di un caso di discriminazione. La scuola è il luogo per eccellenza deputato allo sviluppo e alla realizzazione della persona umana e non può ovviamente ammettere al proprio interno alcuna forma di discriminazione».

Una dichiarazione che elude la questione di fondo: il nuovo governo, se vuole davvero aiutare gli studenti, dovrebbe fare il possibile per tenere lontane dalle scuole le colonizzazioni ideologiche come la teoria del gender, di cui la carriera alias è una delle ultime applicazioni. Se si ha a cuore «lo sviluppo e la realizzazione della persona umana», coerentemente ci si deve impegnare a contrastare un’ideologia che propone a giovani e giovanissimi - come via di “pace” con sé stessi - un’illusoria soluzione: rovinare il proprio corpo. Infatti, che si pensa facciano i farmaci blocca-pubertà, gli ormoni del sesso opposto e infine le operazioni chirurgiche deturpanti le parti sessuali più intime? Come può conciliarsi tutto questo con un’autentica istruzione e missione educativa?

È evidente che fare il bene di una persona non significa assecondare tutti i suoi desideri, ma aiutarla a capire quando qualcosa che desidera le può nuocere anziché giovare. La soluzione di un disagio, che si tratti di “disforia di genere” o di altro, non può essere devastare un corpo sano per assecondare una percezione mentale, spesso solo temporanea. È invece la mente che deve riconoscere e accettare il corpo sessuato - sessuato tanto nei caratteri esterni quanto in quelli interni - a cui è indissolubilmente legata.

Basterebbe anche solo fare tesoro degli errori altrui e di chi ha la forza di riconoscerli. Si è già richiamata su questo quotidiano, tra le tante, la fresca e coraggiosa testimonianza della statunitense, oggi diciottenne, Chloe Cole, pentitasi del “percorso di transizione” da lei intrapreso per apparire maschio, un percorso tremendo iniziato con gli ormoni e culminato con una mastectomia. Insieme ad altri «detrans», Chloe Cole ha anche scritto una lettera al procuratore generale degli Stati Uniti, Merrick Garland, e denunciato come sia stata la pervasività dell’ideologia Lgbt a fare credere loro di trovarsi in un corpo sbagliato. «Molti di noi eravamo giovani adolescenti quando abbiamo deciso di sottoporci, su indicazione di medici “esperti”, a trattamenti ormonali e interventi chirurgici irreversibili per avvicinare i nostri corpi a quella che pensavamo fosse la nostra vera “identità di genere”». Le cause del disagio, in realtà, erano altre «ma tutto questo è stato ignorato perché abbiamo pronunciato la parola “genere”. […] eravamo giovani e ci fidavamo dei nostri dottori. Anche i nostri genitori sono stati fuorviati».

La carriera alias non fa altro che alimentare l’inganno in cui sono caduti, loro malgrado, questi e tantissimi altri giovani. Fermarla è un atto di carità nei loro confronti, così come lo è aiutarli a riconoscere il tesoro che sono chiamati a custodire.