Libia, il governo non diventi complice degli scafisti
Lo chiamano "soccorso in mare". In realtà, le missioni della nostra marina ricordano più da vicino un trasbordo concordato dai barconi alle navi italiane. Ogni tanto qualcosa va storto e allora gli scafisti minacciano i soccorritori a mano armata. E' tempo di cambiare politica, aiutando i disperati sulla terraferma, con la supervisione dell'Onu.
Riguardo all’esodo via mare di disperati dalla Libia all’Italia, se si confronta il documentato commento di Gianandrea Gaiani (Spari ai soccorritori, l’Italia umiliata in mare), pubblicato ieri in queste pagine, con quanto ne scrivono e ne dicono i maggiori giornali e telegiornali, si ha purtroppo ulteriore conferma di come oggi la stampa più diffusa sia divenuta in Italia un semplice ripetitore di comunicati ufficiali. Si tratta, osserviamo per inciso, di materiali che oggi possono anche avere la forma di video-riprese, peraltro facilmente riconoscibili dallo stemma della polizia che li ha diffusi ( “Carabinieri”, “Guardia Costiera”, “Guardia di Finanza” e così via) che le contrassegna in apertura.
La parola d’ordine ufficiale è “soccorso in mare”. Ed ecco che tutti la ripetono diligentemente come pappagalli bene addestrati senza osar dire ciò che peraltro è chiaro a chiunque consideri le notizie e le immagini con un minimo di attenzione. Non è un soccorso in mare bensì un trasbordo concordato da barconi che, partendo dalle coste libiche e forse anche tunisine, portano il loro carico di disperati in zone prestabilite, e quindi avvisano via telefono la Guardia Costiera italiana di venirseli a prendere. Concluso il trasbordo o su natanti delle nostre varie polizie o su altri navi che la Guardia Costiera ha sollecitato a intervenire, alla guida dei loro scafisti i barconi tornano là da dove erano venuti.
Ogni tanto però qualcosa va storto: qualche barcone naufraga con grandi perdite umane, qualche migrante cade in mare e annega durante il trasbordo, qualche scafista spara colpi di avvertimento se il comandante della nave su cui i migranti trasbordano tenta (come si dovrebbe fare) di trattenere il barcone prendendolo a rimorchio. Dal momento infatti che un’imbarcazione abbandonata, ma ancora galleggiante, costituisce un pericolo per la navigazione, se fosse vero che si tratta del soccorso degli occupanti di un natante non più governabile, potendolo il comandante della nave soccorritrice deve prendere a rimorchio il natante abbandonato oppure provocarne l’affondamento. Invece a quanto si capisce il Mediterraneo diviene talvolta anche teatro di una scena tragicomica il cui copione il seguente: il comandante della nave soccorritrice, che crede di essere davvero impegnato in un’operazione di soccorso, tenta di prendere a rimorchio il barcone da cui ha ricuperato gli occupanti, ma gli scafisti reagiscono a mano armata. Trasbordata la loro “merce” umana infatti, essi non intendono affatto venire… salvati, ma hanno solo fretta di tornare al più presto là da dove erano venuti. C’è poi c’è l’ambiguo seguito della vicenda in Italia: qui non appena possibile i migranti raccolti in mare vengono di fatto lasciati liberi di sparire dalla scena con grande irritazione dei Paesi nordeuropei verso cui in realtà sono diretti. Al di là di queste tragicommedie resta il fatto che, in questo modo, Roma finisce per farsi complice di un traffico di esseri umani organizzato con grandi profitti da grosse organizzazioni criminali.
Quando c’è della gente in pericolo in mare la si deve ovviamente soccorrere, ma prima si può fare molto perché queste persone non vengano messe in una tale situazione. Come già avemmo modo di scrivere, il nostro governo dovrebbe al riguardo prendere adeguate iniziative in sede internazionale perché il traffico intercontinentale di migranti non autorizzati venga contrastato là dove inizia nonché in altri punti-chiave della lunga catena di passaggi di cui si compone. A breve termine si dovrebbe frattanto esigere che l’Alto Commissariato dell’ONU per i Rifugiati, UNHCR/ACNUR, faccia in Libia la propria parte, che adesso non fa. L’impresa è difficile, ma non impossibile. L’Eni sta continuando a importare gas dalla Libia avendo evidentemente concordato con qualcuno il presidio degli impianti e del tratto di costa libica da cui parte il suo gasdotto sottomarino. Il nostro governo e l’UNHCR/ACNUR potrebbero farsi spiegare dall’Eni come si fa.