L’ex avvocato di Trump e quelle accuse non provate
Michael Cohen, già legale del presidente americano e intanto condannato a 3 anni di carcere, accusa Trump di averlo spinto a commettere illeciti. Eppure la responsabilità è sempre personale e fin qui c’è solo la parola di Cohen, uno che ha già mentito, contro quella di Trump. Il quale, fino a prova contraria, è da ritenersi innocente. E il presunto "Russiagate", di nuovo, non c'entra.
Mercoledì 27 febbraio Michael Cohen, l’ex avvocato personale del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, ha testimoniato davanti alla Commissione della Camera per la vigilanza e le riforme. Tutti, a questo punto, aggiungono “sotto giuramento”. Già, perché se Cohen (come chiunque) non fosse stato formalmente sotto giuramento sarebbe stato autorizzato a mentire? Ovviamente no. Cohen (come chiunque) deve dire la verità sempre. Aggiungere allora che mercoledì deponeva sotto giuramento è mentalismo puro. Serve a gettare fumo negli occhi come se quell’aggiunta pettegola rincuorasse, addirittura certificasse la veridicità della testimonianza. In breve, è un modo per pilotare l’informazione e indottrinare il pubblico.
Cohen è stato appunto l’avvocato di Trump. A lungo. Dal 2008 al maggio 2018. Cohen è stato inoltre molto più che l’avvocato di Trump. Gli è stato vicino sempre, in tutto, addentro ai segreti veri o presunti, il bandolo della matassa, il cuore del trumpismo. In inglese la stampa ora lo definisce the fixer, che significa “il faccendiere” e al contempo “l’uomo che aggiusta tutto”, insomma una specie di Manny tuttofare del re newyorkese del mattone poi asceso alla Casa Bianca.
Del fatto che Trump sia un farabutto Cohen si è però accorto solo ora che sta in carcere, e che da più parti si vocifera voglia scrivere un libro, forse fare un film, magari persino una fiction tv. Perché Cohen, non lo si dimentichi, è in carcere.
Mentre era l’avvocato di Trump, e lo è stato per dieci anni, Cohen non si è accorto di nulla. Oppure era d’accordo, motivo per cui, per la proprietà transitiva, vien naturale la domanda: se uno è un farabutto, come lo chiamiamo il suo socio in affari?
Poi nel 2017 è partita l’indagine del procuratore speciale dell’Fbi, Robert Mueller III. Cohen ci è rimasto intrappolato. Per cosa? Pe evasione fiscale e frode bancaria. Ha confessato il 21 agosto 2018. Cose che con il famoso, presunto, mai provato “Russiagate” (perché la lingua batte dove il dente duole) non c’entrano nulla. Fra gli otto capi d’accusa contestati a Cohen ci sono però anche finanziamenti illeciti a campagne elettorali, ovviamente quella presidenziale di Trump. Cohen ha detto al Congresso, sotto giuramento, che a quegli illeciti lo aveva spinto Trump stesso. Gravissimo. Il 12 dicembre 2018 Cohen è stato quindi condannato a tre anni di carcere e a una pesante ammenda pecuniaria. Ribadendo che la colpa è tutta di Trump.
Ora, comunismo a parte, la responsabilità è sempre personale. Troppo facile, infatti, fare i brillanti coi talenti degli altri. Altrimenti avrebbero ragione i carnefici di Auschwitz a dire che era tutta colpa del Führer e che loro eseguivano soltanto degli ordini. Mettiamo dunque il caso che davvero Trump abbia istigato Cohen all’illecito. Cohen però l’illecito lo ha commesso di persona. Giusto allora che paghi. Giusto che paghi anche Trump? Certo. Appena lo pizzicano. Per il momento non ci sono accuse contro di lui: ci sono le testimonianze di quelli pescati con le mani in marmellate tutte proprie, gli improperi degli ex e due fatti. Il primo è che Cohen è stato accusato, ha confessato, si sono trovate le prove ed è stato condannato alla galera. Il secondo è che Trump è stato solo accusato da Cohen e non condannato dalla legge. Chiediamoci il perché, la risposta è facile.
Ma, potrebbe aggiungere qualcuno, ci sono appunto le accuse di Cohen. Esatto. Ci sono le accuse. Di Cohen. Che sta in galera. Non riscontrate dagli inquirenti. Le stesse accuse che mercoledì Cohen ha ripetuto con sfoggio di vocabolario. Nel corso di quell’udienza, che sarà l’unica, Cohen ha dato fuoco alle polveri, ma per ora è la sua parola, di condannato, contro quello di Trump, che non è condannato. Lo si è scritto mille volte, va ripetuto. Quando si trovassero prove che inchiodino Trump, se ne prenderà atto. Fino ad allora, Trump, come chiunque altro, è innocente, mentre Cohen deve scontare la prigione.
Di più. Il 28 novembre 2018 Cohen ha confessato di aver mentito, nel 2017, al Comitato sui servizi segreti di Senato e Camera federali. Altri due mesi per falsa testimonianza. Anche allora ha incolpato Trump, ma a Cohen la galera si è allungata mentre Trump è sempre non solo libero ma pure innocente, fino a quella prova contraria che ancora non c’è.
La questione era la costruzione di una Trump Tower a Mosca, cosa che spinge i cortocircuitisti a dire ancora “Russiagate”. No, invece: non c’entra. Trump sognava di costruire un grattacielo nella capitale russa, non l’ha mai fatto, cosa c’entra la presunta corruzione del voto americano per ottenere la presidenza barando?
L’idea risale al 1987, c’era ancora l’Unione Sovietica. Passati gli anni, implosa l’Urss, con il nuovo Cremlino Trump ha firmato un primo contratto nel 2005. Tra alterne vicende, la cosa è andata avanti stancamente. Ebbene, Cohen giurò al Congresso che il progetto venne abbandonato nel gennaio 2016. Invece continuò fino a giugno. Cohen dice di avere mentito per assecondare la linea politica di Trump. Quale? Nessun rapporto politico con il Cremlino. Ora, il fatto di costruire un grattacielo in Russia configura legami politici inconfessabili? No. Dunque l’idea di mentire sotto giuramento al Congresso per coprire Trump per una cosa che non va coperta è stupida. Resta solo la menzogna sotto giuramento del 2017 di Cohen.
Quanto alla Trump Tower moscovita, il Washington Post dice che, siccome non aveva alcuna idea di vincere le presidenziali del 2016, Trump ha continuato disinvolto a portare avanti il progetto. Appunto: 1) se nemmeno si sognava di arrivare alla Casa Bianca, significa che Trump non ha ricevuto nessun aiuto illecito da Mosca per vincere; 2) e questo dimostra che la Trump Tower con la politica sporca non c’entra nulla. Morale, Cohen è in galera e Trump resta innocente.
Che altro c’è? Ah sì, la pornoattrice e la coniglietta pagate per tacere di relazioni extraconiugali. Appena ci saranno le prove, Trump la pagherà. Nel frattempo, abbiamo un presidente del Paese più potente del mondo che non è il massimo della simpatia e del savoir-faire, ma che si batte, concretamente, contro l’aborto, contro la dittatura del gender, per la libertà religiosa. Di tutto il resto parleremo un’altra volta, anche se Donna Edwards, femmina, nera, ex deputata Democratica, grande amica degli Lgbt ha già scritto, perfettamente, su un quotidiano non certo Trump-friendly qual è il Washington Post: «Non m’interessa se Trump sia un bugiardo o un imbroglione. Voglio sapere se sia un criminale».
In fin dei conti, infatti, l’ermeneutica di tutta questa faccenda è una frase rivelatrice di Roberto Festa, giornalista di Radio Popolare, che, nella rassegna stampa internazionale del 28 febbraio, riferendo di un costruttore russo-americano un po’ chiacchierato che avrebbe avuto a che fare con Trump per il famoso grattacielo, ha detto: «Ci sono invece prove che probabilmente lo conosceva bene». Non è l’indicativo imperfetto al posto del congiuntivo imperfetto che stona, ma quel mostro logico che è dire «ci sono prove», «probabilmente».