L'evangelizzazione va portata anche agli ebrei
Il tema del rapporto tra cristiani ed ebrei è stato arricchito di recente di importanti novità, che hanno preparato la visita odierna di Papa Francesco alla sinagoga di Roma. Davanti a queste novità, il fedele si fa una domanda: il dovere di annunciare Cristo, come unico Salvatore, vale ancora anche a proposito degli ebrei o no?
Il tema del rapporto tra cristiani ed ebrei è stato arricchito di recente di importanti novità, che hanno preparato la visita odierna di Papa Francesco alla sinagoga di Roma. Davanti a queste novità, il semplice fedele si fa una domanda altrettanto semplice: il dovere di annunciare Cristo, non solo la testimonianza personale, ma l’annuncio di Cristo come unico Salvatore, vale ancora anche a proposito degli ebrei o no?
L’occasione delle novità di cui parliamo è stata la celebrazione dei cinquant’anni della Dichiarazione conciliare Nostra Aetate sulle religioni non cristiane (28 ottobre 1965). La Commissione per i rapporti religiosi con l’Ebraismo, presieduta dal cardinale Kurt Koch, nel dicembre scorso ha per l’occasione pubblicato un documento dal titolo «Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili». Il testo, che prende il titolo proprio da un passo della Nostra Aetate, è ricco e complesso, ma l’attenzione degli osservatori si è posata soprattutto sul seguente passo: «La Chiesa deve comprendere l’evangelizzazione rivolta agli ebrei, che credono nell’unico Dio, in maniera diversa rispetto a quella diretta a coloro che appartengono ad altre religioni o hanno altre visioni del mondo. Ciò significa concretamente che la Chiesa cattolica non conduce né incoraggia alcuna missione istituzionale rivolta specificamente agli ebrei»… «fermo restando questo rifiuto - per principio - di una missione istituzionale diretta agli ebrei, i cristiani sono chiamati a rendere testimonianza della loro fede in Gesù Cristo anche davanti agli ebrei; devono farlo però con umiltà e sensibilità, riconoscendo che gli ebrei sono portatori della Parola di Dio e tenendo presente la grande tragedia della Shoah». Il documento non è da considerarsi un momento del magistero ufficiale della Chiesa, ma un contributo all’approfondimento teologico del rapporto tra ebrei e cristiani.
In vista della visita di papa Francesco alla Sinagoga di Roma prevista per oggi, il rabbino capo di Roma Di Segni aveva ripreso il tema della “evangelizzazione degli ebrei”, augurandosi che il Papa affermi che i cristiani non devono convertire gli ebrei. «Gli ebrei», ha detto Di Segni, «sono ancora il popolo eletto, anche se non crediamo in Gesù e continuano ad avere un posto in quello che loro chiamano salvezza, anche come non credenti in Gesù. Dal punto di vista pratico significa che gli ebrei non hanno bisogno di essere convertiti. L’ebraismo è considerato una religione parte del loro sistema religioso e merita di essere rispettata». É evidente il nesso tra questa richiesta e le affermazioni della Commissione pontificia ricordato sopra.
All’interno di questo dibattito, la prima cosa da fare è sgombrare il campo dalle cose ormai acquisite: che la religione ebraica abbia per il cristianesimo un posto unico e diverso dalle altre religioni, che il cristiano debba considerare gli ebrei come i propri “padri nella fede” (o altre espressioni similari), che la religione ebraica abbia avuto e abbia tuttora un posto nell’economia della salvezza e che vada rispettata, che vadano deplorati gli odi, le persecuzioni e l’antisemitismo, che la testimonianza cristiana davanti agli ebrei debba essere fatta con “umiltà e sensibilità”, che vada sempre tenuto presente che è Dio che converte e non i cristiani… tutto ciò è perfino ormai ovvio. Ma il problema vero latente nelle affermazioni della Commissione e in quelle del rabbino di Roma è un altro: i cristiani devono proporre Cristo anche agli ebrei o no?
La Nostra Aetate non lo richiede espressamente, ma nemmeno lo esclude, anzi lo postula. Essa afferma, tra l’altro, che è doveroso non presentare gli ebrei «né come rigettati da Dio né come maledetti», però dice anche che la Chiesa è il «nuovo popolo di Dio», che «Cristo si è sottoposto volontariamente alla sua passione e morte per i peccati di tutti gli uomini, perché tutti ottenessero la salvezza», e che la croce di Cristo «è fonte di ogni grazia». Difficile sostenere che la Nostra Aetate non volesse la conversione degli ebrei.
La testimonianza e il dialogo sono sufficienti? Sono veri senza l’annuncio? Nella esaltazione del dialogo propria del post Concilio c’è stato anche chi ha risposto di sì. Ma, per esempio, il cardinale Angelo Amato, da segretario della Congregazione per la dottrina della fede, aveva scritto che nei rapporti con le altre religioni il dialogo del cristiano non deve mai essere disgiunto dall’annuncio (Dialogo interreligioso. Significato e valore, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 2011). Egli distingueva il dialogo della carità (pace, giustizia …) dal dialogo della verità, che è quello più importante. Il Cristianesimo considera le altre religioni come aventi un carattere di avvento – egli scriveva - che le rimanda a Cristo, il che implica l'obbligo di «mandare tutti i popoli a scuola da Gesù» (la frase è del cardinale Ratzinger). La rivelazione di Cristo include tutti gli aspetti positivi delle altre religioni, con una ricchezza unica e particolarmente importante per quella ebraica.