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DIETRO LA PIAZZA

L'europeismo della sinistra: verticistico, antiamericano, "cinese"

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Quella della sinistra progressista è una vera e propria conversione all'europeismo, che nasce con la caduta dell'URSS e che si pone in chiave anti-americana. Un'aspirazione velleitaria ad essere grande potenza, che sbatte contro la realtà.

Politica 17_03_2025

Sarebbe facile liquidare la manifestazione "per l'Europa" convocata da Michele Serra e sostenuta dal "suo" giornale Repubblica, con l'adesione del Pd e dei sindacati confederali, come un'operazione puramente strumentale, volta a cercare di dare una patina ideale alla linea bellicista e riarmista varata dalla Commissione guidata da Ursula von der Leyen, e sostenuta dai governi francese, tedesco e britannico. Una linea che – incidentalmente – converge con le speranze di pubblici finanziamenti a grandi conglomerati economico-finanziari: tra i quali la Stellantis che, attraverso la famiglia Elkann, possiede il quotidiano romano che da tempo è l'organo "ufficiale" della sinistra borghese italiana.

Sarebbe facile, ma vale la pena cercare di andare oltre la superficie propagandistica e gli scopi  occasionali dell'iniziativa. È evidente infatti che nel tempo si è consolidata, nell'opinione pubblica e nelle classi dirigenti "progressiste" italiane, una vera e propria "idolatria" para-religiosa dell'europeismo, usato come un feticcio al di là di qualsiasi argomentazione razionale, che deve essere compresa per decodificare la strategia attuale delle élites europee alle quali quelle classi dirigenti italiane sono pedissequamente accodate, e per identificare in che senso  esse cercheranno di orientare il consenso nel prossimo futuro.

In primo luogo va ricordato che in Italia e in Europa le sinistre nel dopoguerra originariamente non erano affatto europeiste. Non solo i comunisti, ma anche i socialisti e i socialdemocratici furono per molti decenni fieramente contrari alle istituzioni comunitarie nate nel vecchio continente. I comunisti ritenevano (a ragione dal loro punto di vista, come diremo tra poco) che la costruzione europea fosse strettamente connessa all'alleanza tra le nazioni liberaldemocratiche dell'Europa occidentale e gli Stati Uniti. La loro idea di un superamento della sovranità nazionale coincideva invece con l'internazionalismo marx-leninista, il Komintern, il Kominform, lo "Stato guida" del socialismo con capitale a Mosca. I socialisti, anche quando non erano filosovietici, erano comunque antieuropeisti in quanto antiatlantisti, e vagheggiavano un'Europa neutrale.

In secondo luogo, specularmente, va ricordato che i progetti di un'integrazione istituzionale comunitaria europea nacquero come parte della costruzione di uno schieramento occidentale contro l'espansione del comunismo sovietico, con l'attivo incoraggiamento dell'amministrazione americana di Harry Truman e poi di Dwight Eisenhower. Alla base delle istituzioni comunitarie europee c'era la convergenza tra forze cattoliche, liberaldemocratiche e conservatrici allineate con gli Stati Uniti, con il corrispondente tentativo di consolidare l'appartenenza della Germania occidentale al campo anticomunista e di preparare l'adesione della stessa all'Alleanza atlantica (che sarebbe avvenuta nel 1955) stemperando i conflitti con la Francia: intento ben rappresentato dalla convergenza alla base di esse, fra tre leader cattolici come lo stesso Schuman, Alcide De Gasperi e il cancelliere della Repubblica Federale Tedesca (RFT) Konrad Adenauer.

La costruzione comunitaria, peraltro, pur utilizzando in parte il vettore ideologico del federalismo teorizzato in Italia, in forme diverse, da Altiero Spinelli e da Luigi Einaudi, prese forma in maniera che storicamente con il federalismo – in particolare statunitense e svizzero – non aveva pressoché nulla a che vedere. Sotto la prevalente influenza di Jean Monnet, essa seguì un approccio "funzionalista" e rigorosamente intergovernativo, come convergenza e alleanza delle politiche degli Stati nazionali attraverso i trattati.

È a partire da queste premesse che va compreso l'uso ideologico che viene fatto dell'europeismo oggi. In Europa occidentale, e specificatamente in Italia, la "conversione" europeista delle sinistre avviene sostanzialmente a partire dalla distensione e dalla Östpolitik degli anni Settanta, e poi soprattutto dagli anni Ottanta, quando appare chiaro che il modello comunista sovietico è in irreversibile declino, accentuato dall'energica politica di confronto con esso intrapresa dall'amministrazione di Ronald Reagan. In quel contesto l'europeismo viene predicato in funzione essenzialmente antiamericana. L'Europa unita di cui repentinamente si innamorano socialisti europei e comunisti italiani è un'Europa dalle aspirazioni neutraliste di "terzo polo" rispetto alle due superpotenze, e di mediazione nei confronti dell'Urss: una mediazione che viene ben presto scavalcata a pié pari dalla convergenza diretta tra Reagan e Michail Gorbaciov.

Per giustificare presso il proprio elettorato storico l'adesione all'idea di un mercato europeo sempre più unificato, le sinistre in quel periodo spesso specificano di essere contro "l'Europa dei mercanti" e per un'"Europa dei popoli", e sottolineano come nella CEE esista un "deficit di democrazia", da colmare assegnando al Parlamento europeo pieni poteri legislativi e riformando gli altri poteri nel senso della rappresentanza. Una posizione che nei decenni successivi viene sempre più accantonata, man mano che prende forma l'Unione Europea.

Dopo Maastricht, i progressisti che erano stati marxisti diventano infatti entusiasti sostenitori del dirigismo tecnocratico abbracciato dall'asse franco-tedesco e incarnato dalle politiche della Commissione, che subordina in misura crescente la sovranità popolare e le decisioni di parlamenti e governi nazionali alla logica dei "parametri", dei "vincoli esterni", dei "compiti a casa", degli obiettivi programmati in base a criteri puramente ideologici come quelli del "new greeen deal" e della decarbonizzazione.

Dall'internazionalismo dei regimi comunisti e dei piani quinquennali il credo del "buon progressista" europeo slitta senza troppi patemi verso il verticismo algido degli Juncker, dei Dombrovskis, delle von der Leyen. Sempre, però, conservando l'antica idea di un'Europa che si emancipa dall'egemonia americana e gioca un suo ruolo di potenza mondiale, magari flirtando con la Russia o con la Cina. Solo l'avvento negli Stati Uniti di amministrazioni Dem come quelle di Barack Obama e di Joe Biden riconcilia queste aspirazioni con una pretesa fedeltà atlantista, in un quadro dominato dall'idea di un nuovo ordine mondiale liberal, coagulato soprattutto dalla costruzione del nuovo nemico: la Russia "autocratica" di Vladimir Putin.

E così quando - con la seconda elezione alla Casa Bianca di Donald Trump e la sua iniziativa di dialogo con Putin per porre termine al conflitto russo-ucraino – l'oligarchia dirigista dell'Ue viene clamorosamente spiazzata, ecco che ritorna utile, tra i progressisti che l'hanno sempore sostenuta a spada tratta, la retorica europeistica come vagheggiamento di potenza autonoma, e come giustificazione di politiche di riarmo varate solo per rianimare un'industria tedesca e francese altrimenti in crollo verticale. E questa volta fondata sulla costruzione di un doppio, speculare nemico: a Washington e a Mosca.

Una proiezione velleitaria a cui fa riscontro invece una realtà in cui l'Europa resta assolutamente dipendente – economicamente, politicamente e tecnologicamente - dagli Stati Uniti, e non potrà tirarsi fuori dalla risistemazione degli equilibri mondiali che eventualmente nasceranno dai loro negoziati con la Russia. A meno che non torni a guardare verso un possibile asse con Pechino. Idea che  probabilmente una parte della classe politica progressista europea (e italiana) sta prendendo in considerazione, e verso la quale potrebbe in futuro tentare di indirizzare le politiche Ue.