L'eskimo in Procura e quelle indagini ignorate sul Pd
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Le parole di Pennisi, ex pm di Aemilia, fanno tremare il Pd: le sue indagini sulle infiltrazioni tra 'Ndrangheta e politica in Emilia vennero accantonate. E alla Bussola conferma: «Erano pronte le richieste di custodia cautelare, ma andò avanti la linea del pm Mescolini, che non era esperto di Antimafia» e poi da procuratore fu trasferito per incompatibilità e "amicizia" col Pd.
Se tre indizi fanno una prova siamo di fronte a qualcosa di molto concreto nella cosiddetta cinghia di trasmissione tra Procure rosse e Pd. A quanto pare in Emilia non si è indagato, per ragioni politiche, sulle connessioni tra ‘Ndrangheta e giunte targate Partito Democratico nonostante ci fossero evidenze e riscontri.
Prima – la Bussola ne ha scritto QUI - l’informativa dei servizi informativi dei carabinieri (Aisi) che invitava il pool antimafia di Bologna a indagare su fatti specifici relativi al Comune di Reggio Emilia e personaggi poi coinvolti nell’inchiesta Aemilia. Fu lasciata cadere nel vuoto; Poi, il secondo indizio, le rivelazioni di Luca Palamara ad Alessandro Sallusti nel libro Il Sistema, sulla nomina del procuratore capo di Reggio «sostenuto – disse – dal Pd locale». E ora le rivelazioni messe nero su bianco da parte di un procuratore antimafia sullo stop ad indagini che avrebbero coinvolto esponenti Pd.
Lui è Roberto Pennisi, magistrato antimafia andato in pensione da poco e tra i componenti del pool della procura di Bologna che ha indagato e poi fatto processare le ‘ndrine del reggiano nell’ambito dell’inchiesta Aemilia. Magistrato antimafia che si è guadagnato i galloni dopo una vita spesa alla Procura Nazionale Antimafia.
L’altro è Marco Mescolini (in foto), oggi sostituto procuratore a Firenze. Anche lui era uno dei magistrati del pool che ha indagato sugli affari dei clan calabresi nelle province di Reggio, Modena e Parma e dopo quell’inchiesta era stato “premiato” – sappiamo dai “Palamara files” – con l’incarico di Procuratore capo di Reggio. Ma il suo lavoro a Reggio è durato poco: dovette lasciare la procura a causa delle segnalazioni dei colleghi suoi sostituti circa le sue simpatie politiche: “Tifoso del Pd”, si disse, quindi non imparziale: la cosa gli costò – caso più unico che raro in Italia – un allontanamento per incompatibilità ambientale (a Reggio il Pd in tutte le sue evoluzioni della storia, governa indisturbato da più di 70 anni) dopo un giudizio del Csm poi confermato anche dal Tar.
Ebbene: secondo una relazione di Pennisi rilasciata nell’ambito del procedimento pre-disciplinare di Mescolini presso la procura generale di Cassazione, i motivi per sospettare simpatie di sinistra dell’ex procuratore hanno portato come spiacevole conseguenza di mettere su un binario morto alcuni filoni di indagine dell’inchiesta Aemilia che avrebbero toccato da vicino, anzi vicinissimo, esponenti di punta del Pd locale e amministratori della Città del Tricolore. Il particolare è emerso nei giorni scorsi da un articolo del Giornale a firma Luca Fazzo e Domenico Ferrara nel quale è lo stesso Pennisi a confermare che nonostante diverse piste, il pool scelse volutamente di non indagarle. Ma guarda caso, quelle piste avrebbero coinvolto direttamente il partito rosso, egemone in Emilia. Un depistaggio, dunque, che ha ragioni politiche. Pennisi non lo dice esplicitamente, ma lo lascia intendere dal suo ragionamento.
Si tratta di materiale che scotta perché molto difficilmente veniamo a conoscenza di divergenze all’interno del lavoro delle Procure. Di solito, si giudica l’inchiesta nel suo complesso, ma si ignora se dentro l’inchiesta ci siano state decisioni prese su motivazioni politiche rispetto ad altre (la magistratura è pur sempre una casta).
Invece questa volta il corto circuito c’è stato e i due, Pennisi e Mescolini, hanno così assunto l’ingrato compito di rappresentare due “filosofie” d’intervento di fronte al fenomeno del radicamento mafioso sul territorio padano, uno vincente e l’altro perdente.
In un colloquio con la Bussola, Pennisi ha confermato quanto il Giornale gli ha attribuito nel suo scoop, specificando che un’ossatura di quella relazione era già uscita sotto forma di intervista al Riformista oltre due anni fa. Peccato, però che quella relazione non sia ancora disponibile, neppure all’interno della regolare attività ispettiva parlamentare, se è vero che lo stesso senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri non ne è ancora venuto in possesso.
«Come ho cercato di spiegare io non ho mai pensato che pensieri e idee diversi dalle mie fossero dovute a divergenze di vedute politiche – ha spiegato -, ho basato queste diversità di veduta sulla diversa impostazione mentale del lettore delle carte».
Ora, però, si comprende come quelle divergenze fossero di natura politica. «Diciamo che Mescolini dava alle risultanze investigative un valore diverso da quello che gli davo io», dice. Pennisi sta bene attento a non collegare direttamente queste divergenze con l’aspetto politico, però è un dato di fatto che quando lui parla di portare le indagini a «un livello alto» intenda proprio la politica. Chi governava – e governa – infatti le città emiliane ancora oggi? Proprio il Pd, sul conto del quale erano arrivate alla Procura diverse sollecitazioni ad indagare. E non è un caso che l’ex magistrato non più tardi di ieri, in un’intervista ad Ambra Prati sulla Gazzetta di Reggio abbia dichiarato: «Secondo la mia esperienza non esiste un’associazione mafiosa che non abbia collegamenti con altre centrali di potere del territorio». E a Reggio il potere del territorio ce l’hanno immancabilmente giunte, consigli e sindaci a trazione Partito Democratico. Non certo i partiti di destra, da sempre condannati all’opposizione.
Pennisi ci spiega che in ogni caso è la storia dei due a fare la differenza: «Mescolini non si era mai occupato di antimafia, era esperto di indagini finanziarie ed era importante la sua presenza perché l’attività di indagine aveva fatto emergere aspetti di natura finanziaria, in particolare le fatture false che le imprese affiliate facevano e che sono il cuore dell’inchiesta che poi ha portato a numerose condanne. Altri dati di natura più squisitamente mafiosa potevano essere letti da me, dato che ero stato chiamato a lavorare proprio per la mia storia di conoscenza del fenomeno malavitoso come radicamento nel tessuto economico politico di un luogo».
Ma le intuizioni del magistrato siciliano, corroborate da informative precise e puntuali dell’Arma e da numerosi episodi, vennero deviate lungo una linea morta: «Ci eravamo dati una divisione di compiti e avevamo rispettivamente scritto due bozze di richiesta di custodia cautelare che rappresenta la conclusione delle indagini. La mia era incentrata sull’aspetto dell’associazione mafiosa con un filone da approfondire». Quale? Chiediamo. «Il livello politico, che doveva riguardare tutta la politica, di sinistra ma anche di destra. Ma la mia iniziativa è stata accantonata».
È ormai storia che quando nel gennaio 2015 la provincia di Reggio venne sconvolta nella notte da una serie di arresti clamorosi, a finire in manette furono soltanto due esponenti di Centrodestra, Giuseppe Pagliani e Giovanni Paolo Bernini, il primo di Reggio Emilia e il secondo di Parma. La loro carriera politica finì all’istante, poi ci pensò la giustizia a proscioglierli da ogni accusa. Oggi vanno a testa alta rivendicando di aver subito un torto giudiziario che ha minato la loro credibilità. Mentre del livello politico a sinistra non se ne fece più nulla. Eppure, il potere, gli appalti, le concessioni e i rapporti con le imprese che poi si è scoperto essere targate ‘Ndrangheta erano tutti in capo al Pd.
A questo punto, dopo le rivelazioni di Pennisi, una domanda si fa strada sempre più incessante: chi erano i politici destinatari della richiesta di misure cautelari che poi si decise di accantonare? Dalla risposta, forse, si potrebbe riprendere in mano il filo di mistero che dura da un decennio.