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VITA

Lei è la nonna? Ecco questo è il "suo" Marco

In trent'anni di esistenza del Centro di Aiuto alla Vita Mangiagalli di Milano, ho incontrato tanti visi, tante storie e ho vissuto intensamente gli affetti più disparati. Le mie giornate sono piene di ricordi, di pensieri, qualche volta di rimpianti per ciò che ogni giorno ho vissuto. Ne ho scelto una: la storia storia di Stefania e del suo bimbo Marco. E della sua "nonna" davvero speciale.

Editoriali 09_08_2014
Un casa per Marco

In trent'anni di esistenza del Centro di Aiuto alla Vita Mangiagalli di Milano, ho incontrato tanti visi, tante storie e ho vissuto intensamente gli affetti più disparati. Le mie giornate sono piene di ricordi, di pensieri, qualche volta di rimpianti per ciò che ogni giorno ho vissuto. Negli anni Novanta, il Cav aveva in affitto due grandi appartamenti dove potevamo ospitare rispettivamente quattro o cinque madri sole prima con il loro pancione e poi con il loro bambino. Quella che voglio raccontare è la storia di Stefania, una di queste madri con cui abbiamo percorso un lungo tratto di strada.

Autunno piovoso e forse anche un po' triste. Sono nella mia stanza dei colloqui e a un «permesso» quasi bisbigliato, rispondo con un «prego» molto deciso. Si affaccia una figura minuta, forse anche lei un po' triste come quella giornata. «La prego, si accomodi. Mi chiamo Paola e sono molto felice che lei sia qui». «Io, invece, mi chiamo Stefania e mi sento sola al mondo. Aspetto un bambino, sono alla 8° settimana di gravidanza, non ho parenti a Milano e il padre di mio figlio mi ha mandato fuori di casa e non vuole più saperne di me. Con lui vivono due suoi fratelli e io mi sento veramente di troppo. E poi, non so dove andare. Interrompere questa gravidanza mi sembra l'unica soluzione».

Vorrei conoscere meglio la storia di Stefania per capire come poterla aiutare. Lei tende a raccontare: «Me ne sono andata dalla mia famiglia. Non stavo bene con loro. Non mi sentivo capita e ho subito dei maltrattamenti. Per i miei genitori, nulla di me contava. Ho interrotto gli studi e mi vivevo come una perfetta estranea. Sono venuta via e sbarcata a Milano non avevo idea di dove andare. Ho chiesto a dei volontari presenti alla stazione Centrale e mi hanno indirizzato presso un Istituto di suore. Mi trattavano bene, ma provavo una grande solitudine. Un pomeriggio, di domenica, avevo deciso di fare una passeggiata. Sono arrivata ai giardini pubblici e andando per i viali, guardavo i bambini giocare, provando un grande desiderio di famiglia». La sua voce melanconica mi faceva vivere quei momenti di libertà così vuota, così senza affetti.

Stavo con lei in silenzio, aspettando il seguito. Stefania aveva gli occhi che guardavano lontano, probabilmente rivivendo quei momenti di passi perduti. «Passa un giovane uomo: ''Ciao, bella'' mi dice incrociandomi. Quel saluto mi scalda il cuore e facciamo insieme un tratto di strada. Così inizia la mia storia con Luca. Qualche appuntamento, qualche telefonata e poi la proposta: ''Perché non vieni a vivere con me e la mia famiglia ?''. Ho pensato per un po' di tempo alla proposta di Luca per decidere infine di accettare il suo invito. Ho salutato le suore ringraziandole per arrivare in questa casa dove mi sentivo invisibile. In un momento di debolezza, sono stata con lui. Poi la gravidanza di cui lui non ha mai voluto prendersi la responsabilità».

Quanta fatica di vivere, quanta solitudine. «E ora?», intervengo un po' sbalordita. «Ora sono qui. Ho preso le mie poche cose e sono venuta via. Non so proprio dove andare, potrei solo ritornare dai miei, ma certamente non in queste condizioni». La storia di Stefania è sicuramente drammatica e coinvolgente. Qualunque parola mi sembra fuori posto. Mi sento come in una bolla, in cui le cose che contano sono quelle che mancano. Tirarsi indietro? Lasciare che se la sbrighi da sola? Tante emozioni urgono per farsi prendere in considerazione: «Stefania, e se trovassi un posto per lei?». 

La sorpresa è grande. Le racconto della nostra comunità per le donne gravide che accettano la vita del proprio bambino.  «Penseremmo noi a tutto ciò che dovesse servire. Lei potrebbe avere una sua stanza con una cullina e condividere la vita quotidiana con le altre ospiti». Mi guarda con il suo sguardo un po' obliquo: «Lei farebbe tutto questo per me?». Con un’allegria nuova, rispondo: «A una condizione: questo bambino dovrà nascere». Organizziamo così il suo trasferimento a casa nostra. Al momento dei saluti, mi si fa vicina e mi chiede: «Lei mi accompagnerà quando sarà il momento di partorire?». «É una cosa che non ho mai fatto; per te, Stefania, affronterò con piacere anche questa esperienza. Stai tranquilla e cerca di vivere il più serenamente possibile questi mesi». 

I giorni, le settimane, i mesi, passano. Senza quasi accorgercene ci ritroviamo al momento fatidico: Marco deve nascere. É un po' birichino fin da subito perché non si è messo nella posizione corretta ed è stato deciso un taglio cesareo. Ora è primavera inoltrata. Ci mettiamo d'accordo con Stefania per trovarci la mattina del giorno fissato alle sei e mezza. In Mangiagalli ci aspettano. Un bel taxi comodo ci porta fino alla clinica; poi il lungo corridoio e l'ascensore che arriva vicino alla sala travaglio. La mia preoccupazione si fa sentire decisamente, come andrà? La cosa buffa è che mentre mi preoccupavo per tutto quello che doveva succedere, Stefania, pensando alla mia vista perduta, cercava di aiutarmi. Arriviamo così al posto giusto, Stefania viene preparata per la sala operatoria e io vengo accompagnata ad una poltroncina lì nei pressi. La saluto e inizia l'attesa.

Minuti eterni che sembrano non passare mai. Una porta si apre e ''qualcosa'' mi viene messo in grembo. «Lo tenga un po' lei. Faremo tra un po' il bagnetto, la pesata, la visita». Capisco così che il fagottino che tenevo in braccio era Marco, tutto avvolto in un telo di spugna. Lo guardavo intensamente senza vederlo e intanto gli parlavo. Non potevo fare a meno di pensare che senza la nostra accoglienza Marco non ci sarebbe stato. L'emozione mi faceva salire grandi lacrimoni. 

Passi che si allontanano: sono due medici che hanno terminato il loro lavoro. Evidentemente mi hanno guardato e osservato la scena. Nella mia confusione quasi totale in quel momento, sento queste parole:«Certo che le nonne…». Ho faticato a realizzare il senso della frase, ma quando poi ho capito, sono scoppiata in una risata liberatoria. Marco era nato, lo tenevo in braccio e aspettavo la sua mamma per darle un bacio.