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Leggi sul "fine vita": i malati nelle mani dei giudici.

La picccola Marwa vivrà perché lo ha stabilito lo Stato francese, ma nel frattempo Charlie, un neonato inglese, attende una sentenza per non morire di fame e sete. Già l'anno scorso l'Alta Corte di Londra aveva permesso che un altro bimbo venisse ucciso privato di cibo ed acqua oltre che delle terapie. A dimostrare che legiferare sulla vita significa scegliere di consegnare i cittadini al potere statale, pronto a stabilire chi abbia il diritto di esistere e chi no.

Vita e bioetica 09_03_2017
Il piccolo Charlie Gard e la sua famiglia

La piccola Marwa, la bimba francese la cui vita era sospesa nelle mani del tribunale supremo del suo paese, non è l’unica ad aver rischiato la morte di Stato. Se infatti il Consiglio di Stato francese ha deciso ieri che la piccola vivrà, ci si chiede se sia giusto che siano i giudici a stabilire quando la vita è degna o meno di essere vissuta. Nel caso di Vincent Lambert, infatti, il Consiglio di Stato si espresse a favore della morte per fame e sete del malato. Altri episodi come quello francese, dove vigono leggi simili alle Dat (Dichiarazioni anticipate di trattamento) in discussione al Parlamento italiano, si sono verificati anche in Spagna o in Gran Bretagna dove per altro, grazie alle norme sul “fine vita”, molti omicidi sono rimasti impuniti. 

Già nel 2012, infatti, erano state rese note le denunce di centinaia di persone i cui parenti erano morti a loro insaputa per fame o sete, grazie alla procedura “Liverpool care pathway for the dying patient” (Lcp), che prevede la sedazione da terminare con la sospensione di nutrizione e idratazione. Come le Dat italiane, anche queste direttive non solo mettono nero su bianco che alimentazione idratazione sono cure, ma che possano essere sospese. La procedura non è di per sé condannabile, data l’impossibilità di alimentare un malato nei casi in cui sia in agonia o a poche ore dalla morte, purtroppo però il fatto di averla voluta normare ha inevitabilmente portato ad abusi e quindi a contenziosi. Nel 2015, dopo la denuncia delle famiglie i cui parenti sono morti per fame e sete a loro insaputa, il governo inglese aveva cercato di ovviare con nuove regole che però non hanno risolto il problema degli abusi. Ricordando che l'unica via d'uscita è la rinuncia dello Stato a legiferare su materie etiche, rimettendo la responsabilità nelle mani dei parenti e dei medici. Insieme a queste direttive l’Inghilterra ha anche aperto al “do not resuscitate act”, una pratica che vieta la rianimazione in nome della lotta contro l’accanimento terapeutico.

E’ così che ora anche il piccolo Charile Gard, nato a Londra il 4 agosto scorso, rischia di morire per via giudiziaria, visto che sul suo caso dovrà pronunciarsi il giudice dell’Alta Corte inglese. Charlie è affetto da una malattia rara per cui è alimentato con il sondino e aiutato a respirare da un tubicino, esattamente come Marwa. E, sempre come la piccola, anche lui è difeso dai suoi genitori contro il parere dei medici che si sono rivolti ai giudici. L’ospedale London’s Great Ormond Street ha infatti emesso un “do not resuscitate order”, chiedendo la sospensione dei trattamenti e anche degli alimenti, convinti che ciò serva a porre fine alle sofferenze del bambino. I genitori però sono intervenuti implorando aiuto affinché Charlie viva e sia curato da un ospedale americano (non identificato per ragioni legali) pronto a somministrargli una terapia che ha già aiutato tanti altri pazienti in condizioni simili. Sua madre, la 31 enne Connie Yates, oltre a lanciare la campagna #CharlieFight, grazie a cui sono state raccolte oltre 80 mila sterline (ne sono necessarie 1.2 milioni), ha dichiarato che lei e il marito erano “scioccati e spaventati quando abbiamo scoperto che ci avrebbero portato in tribunale” solo “ perché volevamo curare nostro figlio”. E che “non si può esprimere a parole quanto sia terribile vedere delle carte legali con sopra scritto il nome di nostro figlio. E’come se Charlie fosse stato condannato a morte”. 

Già lo scorso aprile la stampa aveva parlato di un caso simile finito tragicamente. Si trattava di un bambino di due anni affetto da una malattia neurologica. I medici dell’Hospital bosses at Guy’s e la St. Thomas Nhs Fundation Trust di Londra, convinti che la situazione stesse peggiorando avevano stabilito la sospensione delle terapie e degli alimenti, perché “il bambino non sorrideva più”. La madre era scoppiata in lacrime di fronte al giudice, gridando che non era vero. Più semplicemente era probabile che suo figlio non sorrideva a chi lo voleva morto ritenendolo “inutile”. Incapace di capire perché il sistema sanitario non abbia provato a cercare altre terapie, la madre aveva scongiurato il giudice di dare al suo piccolo “un’altra possibilità”. Ma Parker, imperterrita, aveva avuto il coraggio di mettersi al posto del piccolo così: “Se fosse in grado di capire, non penso che vorrebbe vivere in questo modo (…) sarà difficile per i genitori affrontare questa inevitabilità ma ci sono cose che sono inevitabili”. Chiarendo poi che mamma e papà lo assistevano giorno e notte aveva però lasciato intendere che si trattava di egoismo, perché “tutto quello che mi hanno detto è basato sui loro desideri", mentre non aveva senso “mantenere vivo artificialmente il bambino”. Questi sono alcuni dei fatti più eclatanti emersi, ma secondo i dati del ministero inglese, già nel 2013, su 130 mila persone trattate seguendo l'Lcp e il Dnr, circa 60 mila non erano nemmeno state informate dai medici. 

D'altronde non si può pretendere che sia diverso quando lo Stato si fa etico regolamentando anche la vita e la morte dei cittadini. Siamo proprio sicuri di volere che si creino contenziosi giuridici attraverso cui il potere e i giudici si possano infilare anche nelle corsie italiane, ovviamente in nome dell’autodeterminazione del paziente? Che si sa dietro questa parola menzognera (c’è poco da autodeterminarsi quando si è malati e si dipende in tutto) si nasconde la consegna dell'esistenza in mano allo Stato, che deciderà a propria discrezione chi ha sufficiente dignità per vivere e chi no.