Leggere Rangel per capire l'utopia dell'America latina
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L'America latina torna in primo piano, con la vittoria di Milei. Il libro di Carlos Rangel, Dal buon selvaggio al buon rivoluzionario (IBL, 2023), ci aiuta a capire perché, tranne Milei, Bolsonaro e pochi altri, nel Sud America la sinistra è egemone.
La vittoria sorprendente di Javier Milei nelle elezioni presidenziali in Argentina riaccende i riflettori dei media sul continente sudamericano. La tendenza di tutta quell’area del mondo è stata, negli ultimi due decenni, verso la sinistra politica. Milei, come Bolsonaro 4 anni fa, costituiscono eccezioni sempre più rare, controcorrente e per questo fanno clamore. Proprio nei giorni precedenti al voto degli argentini, in Italia era stato ripubblicato (dall’Istituto Bruno Leoni) il libro di Carlos Rangel Dal buon selvaggio al buon rivoluzionario, ora con la prefazione di Loris Zanatta, uno dei maggiori esperti italiani di America latina.
Il saggio di Carlos Rangel, scrittore, giornalista e diplomatico venezuelano, è stato pubblicato nel 1976, l’autore è morto nel 1988, prima di assistere agli esperimenti di Chavez e Morales, Lula e Mujica. Ma la sua analisi non è per nulla invecchiata, a dimostrazione che la politica sudamericana si muove secondo leggi che non sono mai mutate.
La ricerca della purezza, la frustrazione, il confronto malato con l’altra America (quella del Nord), il vittimismo e l’auto-assoluzione: queste sono le caratteristiche costanti della politica progressista e rivoluzionaria sudamericana. Ma a cosa mira la rivoluzione? Quale è l’utopia che si vuole realizzare? Sempre al ritorno allo stato di natura, al mito del buon selvaggio, quello che secondo il filosofo Jean Jacques Rousseau era ancora puro, non contaminato dal processo di civilizzazione. Quindi non è una rivoluzione “progressista” in senso proprio, ma una volontà di ritornare ad un passato mitico.
Ciascuna delle correnti di pensiero sudamericano che Rangel passa in rassegna cerca un passato diverso, a seconda dell’ideologia. Alla fine dell’Ottocento, il nazionalismo mitizzava un’America Latina vista come una nuova Atene, una terra dello spirito e della cultura, contrapposta a un’America settentrionale materialista e mercantilista. E così si “consolava” per gli insuccessi militari in ogni confronto con l’altra America e per un divario economico che incominciava già a vedersi.
Il marxismo è stato sicuramente il maggior catalizzatore delle ideologie rivoluzionarie sudamericane e sotto la sua bandiera si è riunita gran parte dell’intellighenzia del subcontinente. Eppure Karl Marx, come ci ricorda Rangel, nella guerra fra Usa e Messico parteggiava per gli Usa. Perché disprezzava i sistemi pre-capitalistici, come il feudalesimo ancora dominante, fuori tempo massimo, nell’America Latina e riteneva che la fase capitalista fosse necessaria come premessa per la rivoluzione. Di che marxismo stiamo parlando, dunque? Solo di quello leninista, sovietico, che ha inventato l’ideale terzomondista: l’imperialismo è la malattia senile del capitalismo e per far scoppiare le contraddizioni del capitalismo è necessaria la ribellione dei popoli sfruttati. Le repubbliche latino-americane, che quando Lenin scriveva le sue tesi erano indipendenti da un secolo, hanno trovato nel terzomondismo un nuovo alibi: siamo più poveri dei nordamericani perché siamo “sfruttati”.
Le rivoluzioni marxiste, a partire da quella cubana del 1959, sono dunque un prodotto diretto del leninismo. La guerriglia, condotta con metodi tipici delle rivolte contadine (ben diversa dalla teoria leninista del colpo di Stato) si è riproposta, con Che Guevara, di creare anche un uomo nuovo. Di plasmare il guerrigliero anti-borghese, spartano, rotto alle difficoltà di una vita di lotta in mezzo alla natura: il buon selvaggio, insomma, in una nuova veste.
Il mito del guerrigliero-buon-selvaggio permette di comprendere anche la saldatura fra il pensiero marxista latino e quella parte di mondo cattolico che ha sposato la rivoluzione. Rangel affronta il difficile argomento della storia della Chiesa sudamericana, dalla conquista spagnola ad oggi, senza mai scadere nelle leggende nere. Evidenzia, semmai, tutte le sue complesse evoluzioni e i paradossi più evidenti: una Chiesa con gli indios e contro la schiavitù, ma al fianco dei viceré; con la Spagna e contro l’indipendenza, ma poi al fianco delle nuove classi dirigenti repubblicane; con gli Usa e contro il comunismo, ma contro gli Usa per opporsi alla penetrazione protestante e al liberalismo. E infine: l’attrazione autodistruttiva per il comunismo di una parte consistente del clero, in una fase in cui il comunismo (che già nel 1959 non poteva più promettere credibilmente un maggior benessere rispetto al capitalismo) si presentava come portatore di un nuovo modello sociale basato sull’austerità. Dunque sull’uomo nuovo, ascetico, stoico, come il Che: il guerrigliero dalla parte dei poveri.
La memoria delle reducciones, le missioni e comunità agricole dei gesuiti, popolate da indios, è una costante dell’immaginario collettivo del cattolicesimo rivoluzionario, ma anche degli indigenisti. Dunque da tutti coloro che esaltano le civiltà pre-colombiane. Che è appunto un mito, perché nessuno dei popoli pre-colombiani, neppure il potente Impero Azteco e l’Impero Inca (indicato dai socialisti come loro antenato) possono essere indicati come modelli imitabili ai giorni nostri. Rangel smonta pezzo per pezzo tutta la narrazione indigenista, smentendo già allora le cifre sul “genocidio indio” ad opera degli spagnoli e mostrandoci i regni di allora per quel che erano: violenti e poverissimi regimi totalitari.
Il significato della vittoria di leader come Bolsonaro o come Milei è l’opposto dell’utopismo sudamericano. È semmai l’affermazione di quella parte di società dell’America del Sud che guarda al Nord per seguirne l’esempio, non con lo sguardo dell’antagonista. Di chi vuole costruire un futuro migliore, senza avere paura della modernità e senza mitizzare un passato che non è mai stato mitico.
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