Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
IL FILM

Le vite degli altri. La bontà umana come antidoto all'obbedienza al tiranno

Le vite degli altri, capolavoro del regista tedesco Florian Henckel von Donnersmarck, ricostruisce il clima di sospetto e sorveglianza pervasiva negli ultimi anni della DDR. Solo scoprendo la bellezza nella coppia che sta spiando, un agente della Stasi salva le vittime e se stesso.

Cultura 23_08_2021
Le vite degli altri

Ognuno ha la sua personale classifica dei film-capolavoro. Nella mia, il primo posto spetta senz’altro a La Talpa (2011), di Tomas Alfredson; ben piazzati sono anche The Wrestler (2008), dell’inquietante Darren Aronofsky e Le vite degli altri (2006), dell’affascinante (biograficamente e intellettualmente parlando) Florian Henckel von Donnersmarck.

Quest’ultimo racconta la verosimile storia del capitano della STASI Gerd Wiesler, nome in codice HGW XX/7, interpretato da uno straordinario attore teatrale, Ulrich Mühe (siamo nella Berlino est del 1984). Il suo superiore lo incarica di spiare un intellettuale, l’autore teatrale Georg Dreyman, sospettato di tramare contro il regime sovietico. L’operazione ha inizio, ma ben presto il capitano Wiesler si rende conto che l’obiettivo non è cercare delle prove a carico di Dreyman bensì rovinargli la vita e la carriera; la sua fidanzata, l’attrice Christa-Maria Sieland, è concupita dal ministro della cultura Bruno Hempf che vuole togliere di mezzo l’intellettuale per poterla avere a sua completa disposizione. Wiesler, tuttavia, osservando la vita di Dreyman e della Sieland, scopre un universo fatto di amicizia, amore, relazioni autentiche, sensibilità artistica, fedeltà; in sostanza, verità, bellezza, onestà. Tutte cose che, nel partito e nella STASI, non esistono. Così comincia a proteggere i due fidanzati, affascinato dalla loro vita della cui bellezza si è trovato inaspettatamente a godere, occultando nei suoi rapporti qualunque cosa possa destare un sospetto da parte delle autorità. Ad un certo punto un amico e collega di Dreyman, Albert Jerska, si suicida: a causa delle sue idee, critiche nei confronti del partito, gli era stato impedito di lavorare. Dreyman decide dunque di scrivere un articolo per denunciare la piaga dei suicidi nella DDR degli anni Ottanta e di pubblicarlo su Der Spiegel, giornale occidentale. Wiesler tenta nuovamente di proteggere Dreyman, ma la situazione precipita e la Sieland muore in un incidente, tra le braccia di Wiesler.

Il film riprende dopo la caduta del muro e la riunificazione. Dreyman assiste alla rappresentazione di un suo dramma e, nel foyer del teatro, incontra l’ex ministro Hempf. Ne approfitta per chiedergli come mai, nonostante le sue idee, non fosse mai stato spiato; l’ex politico gli suggerisce sornione di controllare gli interruttori del suo appartamento. Dreyman torna a casa e scopre l’intero apparato di spionaggio che Wiesler aveva approntato per la sua missione. Si reca all’archivio di stato e trova un fascicolo della STASI che lo riguarda; scopre così l’intera vicenda e il ruolo che in essa aveva avuto  l’agente HGW XX/7. Nella scena successiva vediamo Wiesler che si guadagna da vivere con il volantinaggio. Passando davanti a una libreria, vede l’ultimo libro di Dreyman, intitolato Sonata per un uomo buono; entra nel negozio e comincia a sfogliarlo. Aprendolo, si sofferma sulla dedica: «Dedicato a HGW XX/7, con gratitudine»; commosso, decide di acquistarlo. Il cassiere della libreria gli chiede se deve fare una confezione regalo, ma Wiesler risponde: «No: è per me».

Ci sono poi alcuni aspetti della straordinaria interpretazione di Mühe che vale la pena ricordare: non solo questa fu l’ultima, poiché l’attore morì di cancro pochi mesi dopo l’uscita del film; l’intera vicenda lo riguardava personalmente. Anch’egli, come Dreyman, scoprì dopo la riunificazione di essere stato spiato dalla STASI, nelle persone di quattro suoi colleghi del teatro di Berlino est e da sua moglie Jenny.

Nel film si vedono le disumane tecniche di interrogatorio utilizzate dalla sicurezza di Stato, la pervasività dell’apparato e la sua potenza, persino l’utilizzo sistematico dei bambini per carpire informazioni circa i genitori. In effetti, l’esperienza di controllo messa in atto dalla STASI non ha mai avuto uguali al mondo. Per circa 16 milioni di abitanti, la STASI aveva 91 mila dipendenti e quasi 200mila «collaboratori informali», cioè delatori; praticamente, una spia ogni 50/60 persone. Per fare un confronto: è stato calcolato che nel Terzo Reich c’era un agente della Gestapo ogni 2mila cittadini; nell’Urss di Stalin un agente della NKVD (futuro KGB) ogni 6mila. In Polonia, il Servizio di Sicurezza (SB) e il Servizio Militare Interno (WSW), insieme, avevano circa 24mila dipendenti e 90mila collaboratori. E, a questo punto, la domanda sorge spontanea: perché i tedeschi collaboravano in massa e i polacchi no? A mio avviso, per due motivi.

Il primo riguarda il rapporto di questi due popoli con l’autorità civile; per i tedeschi, questo rapporto è di obbedienza. Già Lutero aveva stabilito che l’autorità dei principi sul popolo era assoluta; al punto che, in seguito alla rivolta dei contadini (1524-1526), scrisse: «Perciò cari signori [Lutero si riferisce ai principi], liberate, salvate, aiutate e abbiate misericordia della povera gente; ma ammazzate, scannate, strangolate quando potete [i contadini ribelli]; e se ciò facendo sopraggiungerà la morte, buon per voi, non potreste incontrare mai morte più beata, perché morite in obbedienza alla parola e al comando di Dio ed in servizio alla carità, per salvare il vostro prossimo dall’inferno e dai lacci del demonio». Per Lutero, infatti, è giusto ciò che l’autorità civile comanda; ad essa si deve obbedienza cieca e assoluta. Anche Kant, qualche decennio dopo, pone il fondamento della morale nella legge e nell’autorità: è il dovere per il dovere kantiano che, nel 1961, Eichmann utilizzò per giustificare la sua partecipazione alla logistica dei cambi di concentramento nazisti. Scrive Hannah Arendt, nel suo La banalità del male: «La prima volta che Eichmann mostrò di rendersi vagamente conto che il suo caso era un po' diverso da quello del soldato che esegue ordini criminosi per natura e per intenti, fu durante l'istruttoria, quando improvvisamente dichiarò con gran foga di aver sempre vissuto secondo i principi dell'etica kantiana, e in particolare conformemente a una definizione kantiana del dovere». Anche Fichte contribuì a fissare questi principi nell’anima germanica quando, tra il 1807 e il 1808, pronunciò i Discorsi alla nazione tedesca.

Fin dalle spartizioni, invece, i polacchi erano abituati a considerare l’autorità politica come il tallone dell’oppressore, al quale era giusto ribellarsi in ogni modo possibile; anche il governo sovietico era considerato un governo illegittimo, invasore. Collaborare con il governo significava tradire la Polonia e il popolo polacco. A queste considerazioni seguono e ne vanno aggiunte altre di natura religiosa. La Polonia è sempre stata una nazione multireligiosa: per secoli ci hanno abitato cattolici, protestanti, ortodossi, tatari musulmani e la più grande comunità ebraica del mondo; è solo dalla Seconda Guerra Mondiale che essa è diventata un paese quasi esclusivamente cattolico. Bene, durante il regime sovietico, la Chiesa cattolica, tramite la rete delle parrocchie, ha costituito una solida alternativa al potere dal punto di vista spirituale, culturale, sociale, economico e politico (fino alla nascita di Solidarność). È vero: la vita, per chi non aveva la tessera del partito (o non collaborava) era davvero dura; ma la Chiesa l’ha resa comunque possibile. Collaborare o non collaborare era dunque una scelta, non un esito necessario.

È quello che si può leggere in una predica dell'allora arcivescovo di Cracovia, Karol Wojtyła, in occasione della festa del Corpus Domini del 1979: «Un ragazzo che frequentava la scuola professionale portava come la maggioranza dei cristiani, vecchi e giovani, una croce sul petto. Gli fu ordinato di togliersi la croce e di non venire più con quella a scuola e comunque di non presentarsi alle esercitazioni comuni. Il ragazzo rispose di no. Lo si espulse dalla scuola e si fece venire la madre. Quando la madre arrivò e si cercò di mostrarle che il comportamento del figlio era stato sconveniente essa affermò. Sono fiera di mio figlio! [...] Ancora un altro esempio. In una grande città, non Cracovia, si è costruito un nuovo quartiere. Insieme al quartiere è nata la necessità di una sala per il catechismo. Ovviamente, noi Curia metropolitana, noi parroci, in questi casi facciamo di tutto per garantire spazi per il servizio divino, per il catechismo, per la chiesa. Lo facciamo sempre, statene certi, seguendo vie legittime. Tuttavia questi nostri sforzi restano spesso senza risposta. Bene, nella città di cui parlavo, si è trovata una piccola casa privata. In questa casa privata c'era una stanza libera, dato che i giovani della famiglia risiedevano altrove. Pertanto la padrona di casa, d'accordo col marito, l'aveva offerta come punto per il catechismo. E quando fu convocata e minacciata di licenziamento dichiarò: il Signore Dio non mi abbandonerà. Se mi licenziate andrò a fare la spazzina. E la saletta è rimasta. [...] Cari fratelli e sorelle, viviamo in un'epoca di confessori. Gli avvenimenti che ho citato, una volta le chiese l'annotavano nel libro dei martiri, Acta Martyrum. Martire è una parola che viene dal greco e significa testimone, confessore davanti a tutti. Anche oggi c'è bisogno di scrivere questi contemporanei Acta Martyrum, i documenti dei confessori, per edificarci a vicenda, per sapere gli uni degli altri, affinché il torto subito da qualcuno o per le sue convinzioni, o a motivo della sua fede e della sua coscienza diventi una faccenda anche nostra».

Ecco le cause dell’originalità della Polonia durante il regime sovietico. Se qualcuno vuole fare un confronto con l’Italia attuale, si diverta pure.