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Intervista alla postulatrice

Le sei suore che diedero la vita nella lotta all’Ebola

Riconosciute le virtù eroiche di sei religiose italiane, infermiere missionarie nell’ex Zaire, che fronteggiarono l’epidemia di Ebola del 1995, con uno dei più alti tassi registrati di letalità (81%). Consapevoli del rischio cui andavano incontro, non si risparmiarono e collaborarono a individuare il virus. «Queste sei Suore delle Poverelle hanno vissuto l’eroicità sempre, in ogni giorno nello Zaire, facendosi carico della povertà, delle malattie e sofferenze dei fratelli congolesi». La Bussola intervista suor Linadele Canclini, postulatrice della causa delle sei nuove venerabili che ricordano l’approccio cristiano ai malati.

Ecclesia 29_03_2021

Quando nel 1995 scoppiò l’epidemia di Ebola, nello Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo) si trovavano missionarie 60 Suore delle Poverelle, istituto fondato a Bergamo nel XIX secolo dal beato Luigi Palazzolo. Nel giro di 33 giorni sei di quelle suore, tutte infermiere professionali, persero la vita nella battaglia contro il virus. La loro vicenda finì sulla stampa internazionale. Quel sacrificio - consapevole, come fu riconosciuto anche nelle motivazioni della Medaglia d’oro al valore civile - non fu vano. La loro opera, vero esempio di vicinanza cristiana ai malati, contribuì pure all’individuazione del virus.

La Chiesa, in due diverse date tra febbraio e marzo, ha riconosciuto le virtù eroiche di quelle sei religiose, tutte d’origine lombarda: suor Floralba Rondi (†25 aprile 1995), che nel ’52 fece parte del primo gruppo di Suore delle Poverelle a iniziare la missione nell’allora Congo Belga, e fu la prima delle sei a morire (a 70 anni), giorni dopo aver partecipato a un intervento chirurgico su un paziente con malattia ignota; suor Clarangela Ghilardi (†6 maggio ’95), 64 anni; suor Danielangela Sorti (†11 maggio ’95), 47 anni; suor Dinarosa Belleri (†14 maggio ’95), 58 anni; suor Annelvira Ossoli (†23 maggio ’95), 58 anni; suor Vitarosa Zorza (†28 maggio ’95), 51 anni [in ordine nelle foto, dall'alto in basso]. Le singole storie della loro vocazione sono una più bella dell’altra e testimoniano una fiducia nella Provvidenza che oggi, tantopiù in tempo di Covid, bisogna recuperare.

Per conoscere meglio la vicenda delle nuove venerabili, la Bussola ne ha intervistato la consorella (di stanza a Bergamo) e postulatrice generale, suor Linadele Canclini.

Suor Linadele, lei ha conosciuto personalmente tutte e sei le consorelle dichiarate venerabili?
Sì, le ho conosciute tutte di persona. Le ho viste operare anche nell’ex Zaire, quando sono andata nel 1992. Perciò ho potuto vedere la loro opera in un contesto di missione.

Leggendo le biografie di queste suore-infermiere risalta la loro preparazione: tutte avevano una specializzazione in malattie tropicali. Insomma, non era una carità improvvisata.
Allora erano tante le suore che andavano in missione. Prima di partire per l’Africa o al primo-secondo rientro in Europa, era prassi comune andare in Belgio, ad Anversa, per specializzarsi in malattie tropicali. Due di loro, suor Clarangela e suor Annelvira, erano anche ostetriche. E le do un dato che oggi farebbe scandalizzare qualcuno, ma che è gradito al buon Dio. A Kingasani, sede di un nostro grande punto maternità, nascevano ogni giorno dalle 30 alle 40 creature. Lì operava suor Annelvira, che fu soprannominata «donna della vita».

In queste sei suore è evidente la vita attiva al servizio del prossimo. Allo stesso tempo dalle loro biografie, pur diverse, emerge una forte dimensione contemplativa e un grande amore per Dio. Era il segreto della loro carità?
Direi proprio di sì. Noi come Suore delle Poverelle abbiamo normalmente tre ore di preghiera al giorno. Queste missionarie pregavano anche di più. Il loro orario di preghiera iniziava alle 5 del mattino. Più di una di loro, alla sera, dopo una giornata di intenso lavoro, si fermava in chiesa davanti al Tabernacolo. Capitava per esempio che suor Floralba, in ginocchio di fronte al Santissimo, venisse invitata dalle consorelle a riposarsi: «E dove volete che prenda la forza se non da qui?», rispondeva.
Poi, suor Danielangela aveva chiesto il benestare per pregare tutte le notti dalle 3.30 alle 4.30. Si alzava quindi un’ora prima delle altre missionarie. La chiamavano “la trappistina”, perché fin dall’inizio della sua vocazione ebbe la tendenza alla vita contemplativa. Il Signore l’ha voluta contemplativa e in missione, fino a dare completamente la vita.

Può ricostruire i momenti essenziali dell’epidemia del 1995?
Intanto bisogna fare un passo indietro rispetto alla primavera di quell’anno. Io ho incontrato un medico congolese che lavorava a Mosango e che mi ha detto che da mesi, almeno da gennaio, arrivavano in ospedale dei malati che vomitavano, perdevano sangue e non si riusciva a capire cosa fosse. C’erano morti quasi improvvise e con sintomi simili a quelli dell’Ebola. Quindi, il virus era preesistente all’evento scatenante di aprile.

Ma non lo si capì subito, giusto?
No, perché si parlava di tifo, malaria cerebrale… Quando il medico di Mosango iniettò il formolo a suor Floralba vide subito che il sangue rifluiva nella siringa. Disse: “Per me questo è Ebola”. Ma non fu creduto. Dopo la morte di suor Floralba e il contagio della seconda suora, Clarangela, fu chiamato il virologo più famoso del Congo, il dottor Jean-Jacques Muyembe, che fece prelevare un campione di sangue di suor Clarangela e di altri. Poi suor Vitarosa si premurò di mandare quei campioni, ben sigillati, ad Anversa: ma qui il laboratorio era chiuso e perciò furono mandati ad Atlanta.

Anche le suore sospettavano fosse Ebola?
Guardi, la superiora provinciale d’Africa, suor Annelvira, l’aveva perlomeno fiutato. Appena arrivata a Kikwit, disse: “Io ricordo, per i miei studi, che a Yambuku, dove ci fu il primo caso di Ebola dello Zaire (1976), morirono delle suore. Ho l’impressione che sia un virus simile”. E appunto suor Vitarosa assecondò il lavoro del dottor Muyembe spedendo i campioni. Un paio di giorni dopo la morte di suor Clarangela arrivò il verdetto da Atlanta: Ebola.

Quella fu un’epidemia con una letalità dichiarata tra le più alte di sempre, l’81%, per 254 morti su 315 contagi registrati.
Sì, però rispetto ad altre epidemie di Ebola - penso soprattutto a quella del 2013-2016 in Africa occidentale con 11.310 morti - le vittime furono limitate grazie all’intervento, sollecitato dalla Chiesa locale, del professor Muyembe e grazie, appunto, alla collaborazione delle Suore delle Poverelle. Inoltre, verso metà maggio arrivarono due medici da Atlanta, che furono non solo magistrali ma eroici.

Quante di voi erano già morte al loro arrivo?
Erano morte le prime quattro suore. Però ne hanno salvate altre. Dall’Italia erano partite altre due suore: una era la superiora in congedo della comunità nell’ospedale di Kikwit, e una nativa del Congo, infermiera. Quando arrivarono a Kikwit, c’erano il vescovo e uno dei medici di Atlanta, che dissero loro: “Voi non entrate più a curare le vostre sorelle”. E loro rimasero di sasso perché erano andate lì per quello, ma poi si sentirono dare questa motivazione: “Perché vi volete troppo bene e continuereste la catena di morti”. Senza quell’altolà noi saremmo morte, chissà, in 10-20. E c’è un’altra cosa che bisogna ricordare.

Ci dica…
Il nostro Fondatore aveva previsto nelle prime costituzioni sei voti: oltre ai tre tradizionali, c’erano i voti di dedicarsi alla gioventù, la speciale fedeltà alla Chiesa e, infine, il voto di adoperarsi per i malati “anche in tempo di malattie contagiose”. Ai tempi della professione delle sei suore venerabili, questi altri tre voti non si facevano più, ma loro ne hanno vissuto in pieno lo spirito.

Oggi, in relazione al Covid, se pensiamo al personale sanitario e anche a religiosi e sacerdoti (a volte forzati a stare lontani dai malati altre no) ci sono sia storie eroiche sia di paura. Queste sei suore-infermiere stavano vicine agli ammalati sapendo benissimo quanto rischiavano. Sta in questa vicinanza, fisica e morale, l’approccio cattolico di fronte alla sofferenza dell’altro?
Sì, e vorrei aggiungere un punto. È vero che anche oggi ci sono persone eroiche nell’assistere i malati. Ma va detto che queste sei suore hanno vissuto questa eroicità sempre, in ogni situazione, non facile, nello Zaire. Qualcuna si è trovata anche il fucile piantato davanti, nei tempi delle sommosse e dei disordini politici. Le consorelle, come abbiamo dimostrato con la causa sull’eroicità delle virtù, si sono sempre fatte carico della povertà, delle malattie e sofferenze dei fratelli congolesi. Un gesuita congolese, uno dei periti dell’inchiesta che ha approfondito la storia dei contesti dove le suore hanno vissuto, ha concluso la sua relazione dicendo che le Suore delle Poverelle, per lo spirito del Palazzolo da loro incarnato quotidianamente, di fronte all’epidemia “non potevano che dare la vita”.

Al di là del momento in cui fu scoperto che si trattava di Ebola, c’erano quindi una consapevolezza e un carisma - dare la vita per il prossimo - che venivano da lontano. Qualche altro episodio particolare?
Sarebbero tanti... Consideri che la missione a Kikwit è un grande recinto con un portone per l’ingresso dei malati: in quel periodo i parenti li appoggiavano lì e poi scappavano. Ebbene, molti testimoni hanno spiegato che suor Floralba andava a raccogliere gli infermi e il personale le diceva: “Ma no, suora, guardi che sta vomitando, sta perdendo sangue”. E lei rispondeva: “Ma non posso lasciarlo, è un malato!”. Suor Clarangela assistette una mamma partoriente malata di Ebola: allora non si sapeva, ma per lei era normale aiutare qualsiasi persona e sempre lei accompagnò suor Floralba già ammalata a Mosango. Sia suor Danielangela - che la vegliò nella notte del 24 aprile, vigilia della morte - che suor Annelvira affrontarono viaggi faticosi per assistere suor Floralba. La provinciale dovette fare 500 chilometri in jeep e continuò a curare tutti finché poté. Quando ci fu il funerale di suor Floralba, arrivarono dall’Italia due sue sorelle. Una di loro chiese a suor Dinarosa (che in quei giorni proseguiva il suo lavoro in ospedale) come facesse a non aver paura in mezzo ai malati: “La mia missione è quella di servire i poveri! Che cosa ha fatto il mio Fondatore?”.

Un tratto ricorrente nelle loro biografie è quello di essere testimoni della gioia.
Mi limito a citare l’esempio dell’ultima a morire, suor Vitarosa. Era sempre circondata da una marea di bambini, che lei amava particolarmente. A inizio maggio ‘95, volendo aiutare le consorelle malate, partì da Kinshasa verso Kikwit con il permesso della superiora. Tra il personale ci fu chi si mise in ginocchio per dirle di non partire. Ma lei rispose che c’era bisogno del suo aiuto e se ne andò, con il sorriso, intonando un canto nella lingua locale, il lingala, che fa: “Se nella Chiesa Gesù Cristo ti chiama, accetta di servirlo con tutto il tuo cuore”.