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RIFORME

Le Regioni si lasciano cancellare senza fiatare

Da ieri sono in discussione al Senato gli articoli della riforma costituzionale che, di fatto, cancellerebbero ogni autonomia delle Regioni a staturo ordinario. E dai diretti interessati non arriva alcuna protesta. Roberto Maroni fa eccezione, ma si appella a una mobilitazione civile che non c'è. Sono diventati tutti centralisti?

Politica 09_10_2015
Italia

Da ieri sono in discussione al Senato gli articoli della riforma costituzionale che in pratica cancellano le Regioni a statuto ordinario, in quanto enti di autogoverno dei territori, e dai diretti interessati non giunge, non dico un grido, ma neanche un guaito.

L’ultimo segno di vita al riguardo sono state, lo scorso 14 settembre, le dichiarazioni del presidente lombardo,  Roberto Maroni, in margine a un seminario sul tema che quel giorno aveva avuto luogo a Milano al palazzo Pirelli, sede del Consiglio regionale: “E' una pessima riforma”, aveva nella circostanza dichiarato Maroni, “che cancella le Regioni riportando tutto al centro con conseguenze molto negative per territori e cittadini, in particolare della Lombardia, dove sanità, politiche attive del lavoro e infrastrutture funzionano”. E aveva poi promesso che su tale progetto avrebbe fatto «opposizione» coinvolgendo i cittadini, imprese, sindacati. “Mi domando”, aveva polemicamente aggiunto, “che cosa pensino le imprese lombarde, Assolombarda, Confindustria, i sindacati, ad esempio, sul fatto che le politiche attive del lavoro, che da noi funzionano, vengano riportate a Roma, ridando di fatto vita ai vecchi e polverosi uffici di collocamento? Voglio sentire la loro voce, perché se parlo solo io sembra una difesa d'ufficio della mia poltrona, cosa che non è”.

C’era perciò da aspettarsi che, quando la discussione sulla riforma costituzionale fosse giunta al punto cui è appunto giunta ieri, un consistente blocco di forze autonomistiche, sia delle istituzioni che della società civile, sarebbe stato in campo per contrastare una deriva neo-centralistica che, senza affatto essere realmente di aiuto ai territori meno sviluppati e meno efficienti, finirebbe per punire quelli più sviluppati ed efficienti. Invece niente di tutto questo: dal fronte delle autonomie, e della rivendicazione del principio di sussidiarietà come via maestra all’ammodernamento reale della società e dell’economia del nostro Paese, l’unico suono che si sente è quello del silenzio fuori ordinanza.

La speranza opposta, quella del centralismo di antica matrice giacobina, è una delle radici profonde della cultura politica dell’area oggi egemonizzata da Renzi.  E’ un centralismo del tutto congeniale a riformisti autoritari come lui e come Maria Elena Boschi. Sembra invece a prima vista sorprendente che posizioni del genere trovino ampio spazio anche nell’area di centro-destra, che tanto più nelle circostanze presenti dovrebbe per sua natura essere viceversa “girondina”. La cosa diventa invece molto spiegabile, se si tiene conto degli storici legami di interessi che legano le burocrazie centrali romane, statali e non statali, alle clientele meridionali. Storicamente la grande palla al piede del nostro Paese era costituito dalle burocrazie romane, dalle clientele meridionali, delle grandi industrie del Nord protette e sussidiate dallo Stato nonché dalle confederazioni sindacali neo-corporative che organizzavano i loro dipendenti. Travolte dalla globalizzazione, le grandi industrie del Nord sono scomparse dalla scena: per lo più ne restano soltanto delle rovine o, nel migliore dei casi, degli stabilimenti di produzione, estremi lembi periferici di multinazionali quotate alla borsa di New York e con sede in paradisi fiscali autorizzati come i Paesi Bassi. Conseguentemente anche quei sindacati loro organici di cui si diceva sono sulla via del tramonto. Pur avendo perso i suoi segmenti settentrionali, il blocco di cui si diceva tuttavia sussiste, inevitabilmente ancora più parassitario di prima e perciò più che mai pronto a giocare il tutto per tutto.

Questo spiega ad esempio posizioni come quella espressa, in  questi giorni, dal senatore pugliese Luigi D’Ambrosio Lettieri, secondo il quale occorre riportare "il sistema sanitario nazionale nuovamente sotto la competenza centrale dello Stato”. Non gli basta nemmeno la ri-centralizzazione già prevista dal disegno di legge del governo. Perciò ha presentato un emendamento all’art. 31 del ddl Boschi in votazione al Senato inteso a togliere alle Regioni anche il poco di autonomia in campo sanitario che loro verrebbe ancora lasciata. L'emendamento riporta totalmente  “in capo allo Stato la programmazione dei servizi sanitari” , ha spiegato il senatore con un passato di rilievo ai vertici della Federazione degli Ordini dei Farmacisti e un presente di parlamentare del gruppo dei Conservatori e Riformisti, una delle minuscole costellazioni nate dal big bang dell’area di centrodestra. "La finalità è quella di porre rimedio”, egli ha spiegato, “al conferimento di competenza esclusiva alle Regioni in materia sanitaria. Infatti con la revisione del titolo V, si concede al Presidente di Regione di turno la possibilità di spendere il 75% delle risorse complessivamente disponibili (quanto assorbe attualmente la sanità) a sua totale discrezione e in una condizione priva di qualsiasi controllo da parte dello Stato. La storia recente ha evidenziato i danni prodotti dalla finanza allegra di molte Regioni, soprattutto centro-meridionali, che hanno dilapidato risorse senza costruire nulla di buono e costringendo i propri cittadini alla migrazione sanitaria ogni qualvolta ci fosse un problema serio da affrontare, oltre che a liste d’attesa inaccettabili". 

Siamo insomma ancora al mito dello Stato buono ed efficiente che, se tiene tutto nelle sue mani, può garantire (chissà come) al Sud un’efficienza e un buon uso delle risorse che altrimenti, per maligno sortilegio, scappano via verso il Nord. Non viene neanche il sospetto che la via giusta da percorrere, per evitare questa presunta fuga magica, sia quella opposta, ossia la scommessa sull’autonomia, purché beninteso sia un’autonomia responsabile. E di fronte a tutto questo la mobilitazione annunciata da Maroni dove è mai andata a finire? Si è persa nei meandri del suo braccio di ferro con Salvini?