Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
IL LIBRO

Le prove dell’esistenza di Dio nella filosofia

Dimostrare l’esistenza di Dio con la sola ragione si può. Lo testimoniano le numerose prove elaborate dai filosofi sin dai tempi antichi, riprese dal compianto professor Enrico Berti nel saggio Le prove dell’esistenza di Dio nella filosofia.

Cultura 06_12_2022

«Le prove dell’esistenza di Dio non intendono suscitare la fede, ma aprire uno spazio che la rende possibile». Con queste parole il compianto professor Enrico Berti, accademico dei Lincei e docente di Storia della filosofia antica all’Università di Padova, riprende con stile divulgativo nel volume Le prove dell’esistenza di Dio nella filosofia (Morcelliana 2022, pp. 192) le numerose argomentazioni dei filosofi a supporto dell’esistenza di Dio. Tali dimostrazioni costituiscono il cuore della filosofia, se si considera «la totale problematicità del mondo dell’esperienza, cioè la sua insufficienza a spiegarsi interamente da sé».

Il volume raccoglie gli appunti di un ciclo di lezioni sul tema tenute dal professor Berti nel 2009 alla Facoltà di Teologia di Lugano poi revisionati dallo stesso docente. Vengono quindi prese in considerazione in special modo le dimostrazioni dell’esistenza di Dio di Aristotele, sant’Anselmo d’Aosta, san Tommaso d’Aquino, Cartesio, Leibniz, Hume, Kant, Hegel e di altri pensatori contemporanei.

Partendo dalla considerazione che ciò che si muove non è semovente ma è mosso da altro, poiché non ha in sé il principio del proprio movimento, Aristotele sostiene che deve esistere una prima causa nella catena delle cause motrici, altrimenti nessun movimento potrebbe aver mai luogo. Tale causa è il celebre primo motore immobile, che è tale in quanto perennemente in atto e non soggetto al divenire dalla potenza all’atto implicito in ogni realtà che invece si muove. Aristotele rifiuta infatti l’idea del demiurgo platonico, in quanto ritiene che la «concezione antropomorfica del divino non si addica alla sua perfezione».

L’unum argumentum di Anselmo d’Aosta definisce Dio a partire dalla negazione della sua esistenza da parte dell’insipiente il quale, nell’affermare che Dio non esiste, in realtà si contraddice. Infatti se Dio è “ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore”, necessariamente deve esistere, in quanto se esistesse solo nel pensiero e non anche nella realtà non sarebbe “ciò di cui non può esser pensato nulla di maggiore”. Solo dall’idea di un Assoluto pensabile in questi termini è possibile dedurne implicitamente l’esistenza; ecco perché non vale l’obiezione dell’isola beata, avanzata dal monaco Gaunilone. Essa non è in effetti “ciò di cui non può esser pensato nulla di maggiore”, definizione che vale soltanto per Dio ed è equivalente all’idea che Dio ha di sé quando pensa sé stesso.

Quello che però Anselmo non riesce a dimostrare è la trascendenza di Dio rispetto all’universo creato, per cui saranno necessarie le cinque vie di san Tommaso d’Aquino. Esse ricorrono in diverse opere del Dottore Angelico, in particolare nella Summa contra Gentiles. L’Aquinate ritiene che dagli effetti da noi conoscibili si possa dimostrare che Dio esiste, pur essendo la conoscenza di Lui solo in sé evidente e non per noi. Di qui, riprendendo il discorso aristotelico sul moto, Tommaso desume che Dio sia il primo motore che origina il movimento senza esser mosso da altro. Il Creatore è anche la causa efficiente da cui deriva ogni ente; è causa dell’essere delle altre cose; è un essere necessario e «possiede tutte le perfezioni nel grado massimo». D’altra parte se l’essere è ordinato deve esistere necessariamente un ordinatore.

Cartesio elabora tre prove dell’esistenza di Dio. La prima muove dall’evidenza che, «per poter dire di essere imperfetti, occorre avere in sé l’idea di perfezione». Allo stesso modo, poiché se l’uomo si fosse fatto da sé si sarebbe fatto perfetto, e così evidentemente non è, allora è Dio ad averlo creato. Il filosofo francese ritiene ancora, sulla scia di sant’Anselmo, che l’esistenza di Dio possa «essere ricavata analiticamente dalla definizione di essere perfetto».

Leibniz sostiene che «la ragione ultima delle cose deve essere necessaria». Inoltre, dal momento che «tale sostanza è una ragione sufficiente di tutti quei particolari che sono connessi in ogni parte, ne segue che vi è un solo Dio e che questo Dio è sufficiente». D’altra parte una catena infinita di verità contingenti non è mai sufficiente a giustificare da sola un fatto, per cui occorre una verità necessaria come quella di ragione.

Con il filosofo tedesco Kant si chiude la possibilità di una dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio, poiché Egli eccede l’ambito dell’esperienza. L’essere pensato dal pensiero, così come lo rileva la prova anselmiana, è al contrario per l’idealista Hegel una dimostrazione efficace dell’esistenza dell’Assoluto.

Infine, il volume di Berti riprende sinteticamente gli sviluppi del dibattito sul tema nel Novecento, in particolare la discussione tra filosofi neotomisti e neoidealisti, concludendo in buona sostanza con la “formulazione felice” di Marino Gentile per il quale, data la contraddittorietà del mondo, che non è né il tutto né l’Assoluto, deve esistere necessariamente un Dio che lo trascende.