Le migliori università americane hanno un problema con gli ebrei
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Attentissime ad ogni parola sbagliata contro le minoranze, ma contro gli ebrei tutto è permesso. Le università americane hanno un problema di antisemitismo e le loro presidi, in audizione al Congresso, non sanno come rispondere.
Le università statunitensi hanno un serio problema con gli ebrei. Parrebbe incredibile, ma nel secondo decennio del XXI Secolo si sta riproponendo l’antisemitismo. Posti di fronte al problema, in un’audizione al Congresso, tre presidi di altrettante università prestigiose, Pennsylvania, Harvard e Mit, hanno dimostrato di non essere affatto sensibili al tema. Né di aver troppa intenzione di frenare la sua degenerazione.
I campus statunitensi, dopo il massacro di 1400 israeliani ad opera di Hamas, il 7 ottobre scorso, non hanno atteso neppure la risposta militare a Gaza per manifestare la solidarietà con la “Palestina libera” e di fatto con Hamas. I tempi della protesta (prima di ogni bombardamento israeliano, appunto), così come la simbologia (la figura stilizzata dei paracadutisti di Hamas che hanno compiuto la strage al Nova Festival), la violenza degli slogan e il maltrattamento degli studenti di origine israeliana, o semplicemente di religione ebraica, suggeriscono che questa sia un’ondata di antisemitismo e non una legittima critica al governo Netanyahu.
Si stenta a riconoscere questo fenomeno come antisemitismo, perché ha tutt’altra matrice. Non viene da estremisti suprematisti bianchi, spesso rozzi, ignoranti e maneschi, ma da studenti di tutte le etnie inseriti nelle accademie in cui si forma l’élite americana. Non assume neppure le sembianze dell’antisemitismo razziale degli anni ’30, condiviso anche negli ambienti scientifici che credevano nelle differenze biologiche delle razze e propugnavano la superiorità della razza bianca. Nel XXI Secolo, l’antisemitismo nasce da una costola dell’estrema sinistra e sta sempre più assimilando la narrazione islamica.
Due fenomeni virtuali lo dimostrano: la diffusione via Tik Tok della “lettera agli americani” di Osama Bin Laden (la sua rivendicazione dell’attacco dell’11 settembre) è diventata virale fra gli studenti di sinistra, molti dei quali la definiscono come una lettera da leggere e in grado di “aprire gli occhi” sui problemi americani. Bin Laden, in quella lettera, inneggiava allo sterminio degli ebrei e degli americani, fra le altre cose. Il secondo segnale inquietante è l’aumento di influencer che, sempre sui social network, si convertono all’islam e mostrano giorno per giorno l’esempio della loro conversione, ma sempre in chiave anti-sionista e anti-Usa. Il loro pubblico, benché non sia vastissimo, è in costante aumento, specie fra studenti delle superiori e delle università.
Nell’audizione alla Camera, la deputata repubblicana Elise Stefanik, ha posto una domanda molto semplice: inneggiare al genocidio degli ebrei, viola o no il codice di condotta dell’università. Le risposte delle tre presidi sono state incredibilmente vaghe. Così Elizabeth Magill, dell’Università della Pennsylvania: «Se il discorso si trasforma in un comportamento, si può parlare di molestie». Poi precisa che «… è una decisione che dipende dal contesto».
La preside di Harvard, Claudine Gay, la prima afro-americana alla guida della prestigiosa università, ha dato una risposta altrettanto vaga: «Dipende dal contesto». E anche qui: «Se la parola sfocia in una condotta definibile come bullismo, abuso o intimidazione», allora l’università può intervenire.
Risposta fotocopia pure dalla preside dell’Mit, secondo cui inneggiare al genocidio degli ebrei è da considerarsi come un atto di violenza «Se si tratta di individui, non di dichiarazioni pubbliche». La Kornbluth ha aggiunto di non aver «sentito invocare il genocidio degli ebrei nel nostro campus». Tuttavia, ha ammesso di essere a conoscenza di canti durante le proteste nel campus che «possono essere antisemiti, a seconda del contesto, quando si invoca l’eliminazione del popolo ebraico».
Ora vediamo, però, il “contesto” in cui le tre presidi parlano. Le loro università sono state finora scrupolosissime nel reprimere le parole (e non solo le azioni) se erano ritenute offensive nei confronti delle minoranze.
Harvard ha adottato come regola di buona condotta (e insegnato ai suoi studenti in corsi obbligatori) l’uso dei pronomi corretti per le persone Lgbti. Una violazione di questa regola, l’uso di un pronome scorretto, come usare un “lui” per una persona che si identifica donna, è considerata una forma di violenza. Harvard combatte anche la “grassofobia”, quindi l’attitudine a considerare un problema l’essere sovrappeso (anche senza arrivare al bullismo, solo considerare la grassezza come un problema).
L’Università della Pennsylvania, nel 2018, aveva licenziato la professoressa di diritto Amy Wax, dopo che aveva confidato come gli afro-americani, nei suoi corsi, raramente si qualificassero fra i migliori. Secondo l’amministrazione universitaria, le sue parole (una mera constatazione statistica) hanno violato la sua politica anti-discriminazione.
L’Mit, che pure è un’università scientifica, ha adottato politiche simili. Ad esempio ha cancellato una lezione dello scienziato Dorian Abbott, sul cambiamento climatico, non perché fosse un “negazionista” (altrimenti non lo avrebbe neppure invitato), ma perché aveva espresso un’opinione personale: le assunzioni si devono fare in base al merito e non all’identità, dunque al colore della pelle o al sesso. Praticamente era quel che diceva Martin Luther King. Ma secondo i canoni del nuovo antirazzismo, parlare contro la discriminazione positiva è razzismo. Oggi si deve assumere o promuovere sulla base dell’appartenenza ad un gruppo sociale collettivamente considerato come svantaggiato.
Per questo motivo le testimonianze delle tre presidi in Congresso hanno fatto veramente scalpore e hanno sollevato un polverone di polemiche. Il doppio standard non è sfuggito a nessuno.