Le lezioni di Finkielkraut: la depressione dei moderni
"Noi, i moderni" è un’opera che nasce da una raccolta di lezioni universitarie tenute al Dipartimento di Scienze umanistiche e sociali dell’École Polytechnique dal filosofo francese Alain Finkielkraut secondo cui l'uomo moderno vuole appartenere a tutto e creare una società universale, senza una patria, una cultura, un’identità. Ma questa è una regressione angosciante.
Noi, i moderni (edizioni Lindau) è un’opera geniale, che nasce da una raccolta di lezioni universitarie tenute al Dipartimento di Scienze umanistiche e sociali dell’École Polytechnique dal filosofo francese Alain Finkielkraut (1949).
Un prestigioso intellettuale del secolo scorso, Roland Barthes (1915-1980), amava essere considerato moderno, «un uomo al quale il passato pesa», finché non accadde un evento che demolì tutte le sue convinzioni: la morte della madre. Allora si accorse che amava il passato, ne aveva nostalgia, avrebbe voluto recuperarlo. La morte aveva ristabilito il peso della realtà nei confronti del mondo del pensiero e delle idee. La realtà è sempre il migliore antidoto all’ideologia. Barthes iniziò da quel momento a concepirsi come un sopravvissuto, cioè «un uomo al quale il passato manca» (Finkielkraut).
Chi sono i moderni? Il moderno crede al progresso, al mondo migliore realizzabile dall’uomo in un mondo in cui non occorre Dio. Pensa che sull’altare della storia possano essere sacrificate molte persone, perché in fondo tutto concorre al miglioramento del mondo in cui viviamo secondo un disegno positivo. La lezione di Hegel impera: «Tutto ciò che è razionale è reale e tutto ciò che reale è razionale». In questo modo tutto quanto accade può essere giustificato. Ne abbiamo viste le mostruose conseguenze nel Novecento. Il moderno vuole appartenere a tutto il mondo e creare una società universale, senza una patria, una cultura particolare, un’identità.
Finkielkraut riesuma alcuni giganti dei secoli scorsi, veri e propri profeti della contemporaneità, giganti del pensiero: tra questi senz’altro Vaclav Havel (1936-2011), Charles Peguy (1873-1914), Alexis C. de Tocqueville (1805-1859). Ne Il potere dei senza potere Havel sottolinea che a causare il vuoto e il grigiore della vita non sono solo l’assillo del Potere, la censura, il controllo politico, un’ideologia soffocante e le violazioni dei diritti umani, ma la vita stessa, […] la vita come unico orizzonte vitale (Finkielkraut). Peguy svela che il vero scandalo non è la povertà, ma la miseria (la continua e servile «sottomissione alle norme del biologico»). I miserabili non si dimenticano mai di se stessi. Vietata ogni trascendenza per loro, preclusa ogni tradizione, girano a vuoto nella gabbia del bisogno. Inchiodati a se stessi, soggetti all’assoluta autorità del proprio corpo, sentono e vedono solo quello che l’angoscia della necessità permette loro di sentire e di vedere (Finkielkraut).
Alexis C. de Tocqueville profetizza il disinteresse per l’ambito pubblico e per la politica come l’esito di una democrazia in cui trionfa l’individualismo vissuto nella tranquillità e nella finta pace domestica, che non considera l’altrui miseria e sopravvive nella dimenticanza di una giustizia per gli altri. L’individualismo corrisponde ad una torre d’avorio isolata che può prosperare solo fino a quando non arriveranno le «truppe degli invasori» scontenti. Tocqueville chiama questo nuovo dispotismo morbido, mite e paternalistico. «Non sarà una tirannia del terrore e dell’oppressione, come nel tempo andato». Tocqueville profetizza anche il declino della partecipazione e lo statalismo che dissolve il valore delle associazioni e della sussidiarietà ponendo la persona sola di fronte al gigantesco Stato burocratico. Si accentua così il circolo vizioso dell’individualismo narcisistico che si è costruito la dimora dorata in cui coltivare il proprio orto e assaporare le proprie ricchezze.
Siamo in un’epoca di democraticismo più che di democrazia. Scrive Alain Finkielkraut: "L’escatologia egualitaria esige che tutti siano autori e che sia cancellata per sempre la figura paterna, trascendente, inibitoria dell’Autore. Tutti autori, in un mondo senza autore: è questa l’ultima forma dell’eguaglianza. E ancora: se ogni uomo è artista, perché mai elevare gli artisti al di sopra dell’umanità comune? Se ognuno ha il dovere di realizzare le sue virtualità poetiche, perché mai celebrare i poeti?
L’artista statunitense Andy Warhol (1928-1987) afferma che nell’epoca contemporanea chiunque può essere famoso per un quarto d’ora. Attraverso fatti eclatanti (anche quelli più truculenti o volgari), nei talk show o nel grande fratello televisivo, grazie all’utilizzo di mezzi mass mediatici che portano ad una diffusione capillare delle informazioni, oggi, infatti, alcuni personaggi riescono a raggiungere il successo. Alla rapidità e all’estensione della fama corrisponde, però, in modo inversamente proporzionale la facilità in cui la fama stessa si dissolve.
Negli ultimi decenni del Novecento, una volta vanificati la tradizione, azzerata ogni esperienza artistica, sottovalutato tutto ciò che è del passato si può tranquillamente proporre agli occhi e agli orecchi di tutti la spazzatura: il trash. Al Museum of art di Filadelfia viene esposto nel 1992 lo Strange Fruit, opera di Zoe Leonard, composta da bucce di banana, di arancia, di pompelmo e di altri frutti cuciti con filo di ferro. La vera e propria spazzatura è diventata arte: non un sogno, ma un incubo, quello della distruzione dell’arte, si sta traducendo in realtà.
Si chiede allora Finkielkraut: a che servono oggi poeti e romanzieri? Chi erano fino a un secolo fa e chi sono oggi, dopo il ’68? Ne L’impero dell’effimero Gilles Lipovetsky scrive: "La cultura di massa è una cultura di consumo […] La seduzione che essa esercita sta in parte nella sua stessa semplicità. Bisogna evitare il complesso, presentare storie e personaggi immediatamente identificabili, offrire prodotti d’interpretazione minimale.
Quando tutte le esperienze della realtà vengono giudicate parimenti storiche, parimenti fittizie, parimenti valide, non c’è più una cultura generale, ma un’abbondanza di identità particolari collegate attraverso la comune cultura degli apparecchi, delle norme, delle regole, delle operazioni in vigore nell’universo della tecnica e del mercato.
La modernità e la postmodernità hanno parcellizzato la realtà e hanno sviluppato una conoscenza iperspecialistica che si scorda del senso e del valore dell’universale. È come se si proponesse un’analisi della foglia in maniera dettagliata senza che conoscere la pianta nel suo complesso.
La cultura deriva, invece, da un passato (il terreno in cui siamo cresciuti, la tradizione) e si apre ad una domanda sul presente e sul futuro (i frutti). La cultura coinvolge non solo la sfera della materialità (l’aspetto fisico, concreto, pragmatico dell’uomo), ma anche la componente religiosa (la questione dell’uomo e del suo rapporto con il destino, le grandi domande sulla vita). La cultura tiene insieme il particolare con il suo significato e con il suo scopo.
L’uomo della società liquida ha, invece, rifiutato le radici, i legami, l’appartenenza, vuole appartenere a tutto per non appartenere a nessuno. Dallo stato sedentario è ritornato a quello nomade. Che verbo potremo ora creare per descrivere questo regresso, questo passaggio epocale che ci riporta al nomadismo di un tempo?