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Le date dei Vangeli secondo sant'Ireneo, di Luisella Scrosati

Un testo di sant'Ireneo contenuto in Adversus Haereses ha spinto alcuni a una datazione tardiva dei Vangeli, ma è una interpretazione impropria che non tiene conto di due elementi importanti. Ecco quali. 

Catechismo 13_02_2022

Il testo tratto dall’Adversus Haereses di sant’Ireneo, che avevamo riportato nel precedente articolo di apologetica (vedi qui), se da un lato fornisce un grande sostegno alla tesi che vuole l’originale di Matteo scritto in ebraico, dall’altro potrebbe fornire elementi per una datazione dei Vangeli tardiva.

Riprendiamo il brano nella sua interezza: «Così Matteo tra gli Ebrei pubblicò nella loro stessa lingua una forma scritta del Vangelo, mentre a Roma Pietro e Paolo predicavano il Vangelo e fondavano la Chiesa. Dopo la loro morte Marco, discepolo e interprete di Pietro, ci trasmise anch’egli per iscritto ciò che era stato predicato da Pietro. Quindi anche Luca, compagno di Paolo, conservò in un libro il Vangelo da lui predicato. Poi anche Giovanni, il discepolo del Signore, quello che riposò sul suo petto, pubblicò anch’egli il Vangelo, mentre dimorava ad Efeso in Asia» (Adversus Haereses, III, 1. 1).

Questa è una delle traduzioni italiane, che sembrerebbe appunto portare acqua al mulino della datazione tardiva dei Vangeli; o meglio, ad una datazione moderatamente tardiva. Il vangelo di Matteo andrebbe infatti a collocarsi dopo l’anno 62, perché solo dopo quella data Pietro e Paolo si trovavano contemporaneamente a Roma per formarvi la Chiesa con la loro predicazione. Inoltre il vangelo di Marco finirebbe per essere collocato negli anni attorno al 70, dal momento che la morte dei due Apostoli è collocata tra il 64 e il 67 d.C.

C’è un “però”. Anzi due. Sant’Ireneo aveva scritto la sua opera, composta da cinque libri, in lingua greca; ma del testo greco non è rimasto che una buona parte del libro primo: tutto il resto è andato perduto. La versione più antica, che si ritiene essere del IV sec., è in lingua latina, sebbene negli anni Sessanta si sia ricostruita una nuova edizione critica del testo latino, confrontandola anche con una versione armena. Il testo greco che oggi abbiamo a disposizione è invece una ricostruzione molto recente.

Fatte queste premesse, se andiamo a vedere il testo latino e quello greco troviamo due sfumature non proprio trascurabili. La prima riguarda la pubblicazione del Vangelo di Matteo tra gli Ebrei mentre i due Apostoli predicavano a Roma. Il cum latino può sì avere il significato di contemporaneità temporale, ma anche rendere un’avversativa; il testo greco, che utilizza il genitivo assoluto, sembra confermare che Ireneo non intenda rendere un elemento temporale, ma una contrarietà. L’autore vuole quindi sottolineare – ed è una prima ipotesi – che mentre Matteo evangelizzava gli Ebrei, probabilmente in Giudea, Pietro e Paolo si occupavano dell’evangelizzazione della capitale dell’Impero. In questo caso la contrarietà sarebbe di tipo geografico. Oppure – seconda ipotesi -, si potrebbe anche intendere che, mentre Matteo metteva per iscritto il suo vangelo, i due Apostoli predicavano oralmente. Ci troveremmo allora di fronte ad una diversità di modalità di evangelizzazione, l’una mediante lo scritto, l’altra mediante la predicazione orale.

Su questo testo di sant’Ireneo, la Pontificia Commissione Biblica, nel 1911, era intervenuta per chiarire che esso, «di interpretazione incerta e controversa», non poteva essere considerato di «così tanto peso da obbligare a rigettare l’opinione di coloro che, più in conformità con la tradizione, ritengono che questa redazione [del Vangelo di Matteo] sia stata compiuta prima ancora dell’arrivo di Paolo a Roma», ossia nel 61/62. In effetti, l’analisi del testo che abbiamo sopra proposto, mostra che il passo dell’Adversus Haereses non porta necessariamente a collocare la stesura del primo Vangelo in concomitanza con la presenza di Paolo a Roma.

La seconda sfumatura riguarda la trasmissione del Vangelo di Marco «dopo la loro morte». Una prima annotazione, ormai poco contestata, è che la parola excessum, data in greco come éxodon, in Ireneo non significa la morte (che è invece resa in altri passi con thánatos), ma la dipartita, partenza. Nel caso di Pietro, questo potrebbe collocare il Vangelo di Marco negli anni del primo soggiorno dell’Apostolo a Roma, a partire dal 42 d.C. Ma per Paolo? Ancora una volta è importante controllare i verbi utilizzati nelle due lingue “originali”. Il latino tradidit va a rendere il greco paradédoke; a colpire è il fatto che mentre i verbi precedenti sono resi con l’aoristo, quest’ultimo è espresso con il perfetto, che in greco corrisponde al nostro passato prossimo e intende appunto indicare un’azione i cui effetti perdurano nel presente. Il senso della frase diventa allora più chiaro e potrebbe essere reso in questo modo: grazie a quanto Marco, «discepolo e interprete di Pietro» ha messo per iscritto, la predicazione di Pietro e Paolo è giunta fino a noi, anche dopo la loro partenza.