Le classi dirigenti negano la realtà del terrorismo jihadista
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A Magdeburgo così come a New Orleans le classi dirigenti hanno un'unica preoccupazione: negare la matrice islamica jihadista del terrorismo. Ci sono almeno tre tipi di ragioni per cui lo fanno: ideologiche, politiche e partitiche. Ma l'effetto è solo la crescita di forze d'opposizione sempre più radicali.
Ormai è uno schema fisso, un luogo comune, quasi un genere letterario. Davanti ai continui, sempre più frequenti e minacciosi, episodi di aggressioni violente e attentati motivati dall'integralismo islamico nei paesi occidentali, i media mainstream e gran parte della classe politica rispondono all'unisono sempre nello stesso modo: tentando di rimuovere, negare, mascherare il fatto evidente, piuttosto che affrontarlo in tutta la sua gravità.
In questi giorni abbiamo visto ancora questa dinamica all'opera ripetutamente, davanti al tragico attentato di Magdeburgo, poi davanti a quello di Capodanno a New Orleans (entrambi di ovvia matrice integralista islamica), e davanti ai continui assalti di "lupi solitari" (ma chiaramente accomunati da simili origini e moventi) con il coltello contro passanti ignari, come quelli avvenuti a Capodanno a Berlino e a Rimini.
Le modalità con cui avviene questa operazione di rimozione le conosciamo bene. Se un attentatore si getta con un'auto contro un mercatino di Natale o una strada piena di turisti i media producono titoli che recitano più o meno "Auto sulla folla", come se si trattasse di veicoli impazziti senza pilota, e non dell'atto intenzionale perpetrato da una persona.
Poi, quando non si può più negare che la strage sia volontaria, comincia sempre la stessa messa in scena, in 4 fasi: 1) si nascondono il più possibile il nome e la foto dell'assassino; 2) si premette subito che non è detto si tratti di un atto terroristico, e le forze dell'ordine stanno ancora indagando; 3) ci si affretta a comunicare che l'assassino ha la cittadinanza del paese in cui l'attentato è avvenuto, o di altra nazione occidentale, anche quando il nome e le fattezze indicano inequivocabilmente l'origine da un paese islamico; 4) si afferma con sicurezza che il responsabile "aveva problemi psichiatrici". Sono modalità che vengono riprese, in forma difensiva, da rappresentanti dei governi ed esponenti politici anche quando qualcuno evidenzia la gravità e la consistenza della minaccia rappresentata da atti del genere per la convivenza civile e la sicurezza.
Siamo di fronte ad un sistematico, colossale, corale sforzo per negare l'evidenza, per impedire che il tema della minaccia terroristica islamista costantemente incombente sulle nostre società venga percepito come tale dalla popolazione, e trattato come questione prioritaria. Un'operazione non ispirata, salvo casi particolare, da semplici convinzioni personali, bensì da una ben precisa posizione politica, che si traduce in "ispirazione" per i media legati, nella loro grande maggioranza, al "politicalcorrettismo" progressista.
Quello sforzo risponde alla sovrapposizione di tre moventi fondamentali.
Il primo è di natura prettamente ideologica: la convinzione, in base alla dottrina multiculturalista, che l'immigrazione nei paesi occidentali sia un fenomeno positivo in quanto tale, perché produce dialogo e rispetto reciproco; che l'accoglienza sempre e comunque dei migranti sia un dovere morale dei popoli dell'Occidente industrializzato in "risarcimento" a quelli ex colonizzati e in via di sviluppo; che l'"integrazione" degli immigrati nei paesi ospitanti sia un fenomeno naturale e ovvio; che, se essa non avviene, la colpa vada addebitata alla chiusura, al razzismo, all'intolleranza degli autoctoni.
Si tratta di petizioni di principio astratte, para-religiose, fondate su una spinta all'autoflagellazione e sulla convinzione che l'Occidente nel suo complesso debba "espiare" i suoi peccati. Esse scontano la persistente, quasi totale incapacità, da parte di una porzione consistente delle classi dirigenti occidentali, di comprendere che – come ha insegnato Samuel Huntington – le civiltà possono coesistere, ma non possono fondersi. Che, in particolare, la convivenza nello stesso territorio e sotto le stesse istituzioni tra le due civiltà nate dalle più grandi religioni monoteistiche non potrà mai produrre una "integrazione" piena, sul piano dei principi, degli appartenenti a comunità islamiche ospiti, tanto più quanto più esse sono numerose e percentualmente incidenti sulla popolazione. E che, a maggior ragione nel contesto di una persistente faglia conflittuale geopolitica tra le due come quella esistente tra Mediterraneo orientale, Maghreb e Medio Oriente, l'accoglienza sostanzialmente indiscriminata di immigrati da paesi islamici si traduce non in una diminuzione, ma in un aumento delle contrapposizioni tra esse.
Se si smettesse di essere ammaliati dalle sirene ideologiche multiculturaliste, si dovrebbe convenire razionalmente che un cambio radicale di linea sull'immigrazione è urgente in tutte le democrazie liberali europee e americane; che occorre limitare numericamente al massimo l'accoglienza, e selezionare severamente gli immigrati accettando solo quelli che, per istruzione e cultura, siano più assimilabili su un piano individuale.
Il secondo movente è più strettamente legato a un'idea di opportunità politica pratica. Le classi dirigenti occidentali tendono a minimizzare al massimo la percezione degli attacchi jihadisti perpetrati da immigrati perché, se pure fossero convinti della necessità del cambio di direzione di cui sopra, ritengono di non avere la forza per metterlo in atto senza provocare conflitti laceranti nelle loro società. Ma si tratta di un calcolo miope, di brevissimo respiro. Come recita il detto popolare, il medico pietoso fa la piaga purulenta. E ogni giorno, mese o anno di ritardo nell'affrontare una situazione sempre più drammatica e minacciosa produrrà, prima o poi (più prima che poi), effetti molto più rovinosi di quelli che si temono oggi.
Infine, il terzo movente è più direttamente legato a calcoli di politica interna e di partito. Si cerca di negare il problema del terrorismo islamista e dello "scontro di civiltà" interno ai confini degli stati occidentali per non aumentare il consenso a partiti e movimenti di destra conservatrice e sovranista, che della lotta all'immigrazione fanno uno dei loro cavalli di battaglia principali. Ma anche questo calcolo si rivela chiaramente un boomerang. Le destre sovraniste sono cresciute nei consensi nelle democrazie occidentali ovunque innanzitutto perché hanno intercettato la rabbia e la frustrazione dei cittadini davanti alla rimozione della questione da parte delle altre forze politiche. E, più si continua a cercare di "nascondere la spazzatura sotto il tappeto", più aumentano gli elettori che, per sfondare il muro dell'indifferenza e della manipolazione, passano dalla loro parte.
Anzi, quel nascondimento gonfia le vele delle forze più radicali ed estreme. E, a quel punto, la demonizzazione di esse non serve a nulla: al contrario, aumenta ulteriormente l'esasperazione dei cittadini che si sentono traditi. La realtà presenta sempre il conto, e più si tarda a pagare più il conto diventa salato.