Le alluvioni e l’aiuto da chiedere a Dio: i preti benedicano i fiumi
Un’altra alluvione ci ha messo in ginocchio, ma ancora non ci vogliamo inginocchiare. Gli interventi per la sicurezza sono necessari, ma la tecnica non risolve tutto. Ci si rifugi nel Signore e i sacerdoti ravvivino la fede del popolo, riprendendo la benedizione dei fiumi.
Ancora una volta: maggio 2023, settembre 2024, ottobre 2024. L'acqua continua a castigare la nostra regione (Emilia-Romagna), accendendo rabbia e sconforto tra famiglie e aziende che hanno di nuovo perso tutto, e che anche questa volta hanno falciato una giovane vita. A valle allagamenti riempiono scantinati e taverne, invadono campi e mettono in ginocchio la vita delle città; in collina il fango cola dall'alto e i fiumi esondano in basso, stringendo i paesi in una terribile morsa; in montagna si attivano o riattivano frane e si sbriciolano le strade.
Le responsabilità ci sono, perché chi vive qui sa molto bene che dallo scorso anno ad oggi ben poco si è fatto. Si è ricostruita qualche strada, si sono per lo più sgombrate frane, lasciando però il territorio con le sue ferite aperte.
Siamo in ginocchio, ma, ancora una volta, non ci vogliamo inginocchiare. Ancora non vogliamo capire che la nostra vita è fragile e che, per quanto ci sfasciamo la testa con progetti di messa in sicurezza del territorio, assolutamente necessari, la nostra vita non è mai al sicuro. Si prova una pena infinita nel vedere queste povere persone che, nel giro di una manciata di minuti, hanno perso tutto: chi la casa, chi l'azienda agricola, chi beni da migliaia di euro, senza dimenticare oggetti che tessono la storia di una vita, più o meno lunga. Qui a Bologna, all'acqua si è aggiunto subito dopo il fuoco, con la terribile esplosione avvenuta alla Toyota Handling di Borgo Panigale, dove nemmeno tre giorni prima si era sfiorata la tragedia per l'allagamento improvviso di un sottopasso allo svincolo della tangenziale.
Di fronte a queste tragedie, di fronte alla morte dei tre giovani, si comprende la rabbia, si comprende lo sconcerto, ma dietro le espressioni di “morti inaccettabili”, o di eventi “che nel 2024 non devono più capitare” non si può non riconoscere i resti dell'ubriacatura ideologica che ci è stata fatta bere per decenni. Allattati a progresso e scienza, ci viene automatico parlare di ingiustizia di fronte a incidenti e catastrofi e pensare che, se si fossero applicati i protocolli, se ci fossero stati controlli più rigidi, se si fosse fatto qualcosa – qualsiasi cosa –, il lutto e la tragedia si sarebbero allontanati da noi. È quanto di più lontano dalla nostra mentalità adulta e progredita pensare che non siamo migliori dei nostri antenati, che, per quanto l'ingegno umano si applichi alla realtà, e giustamente, la realtà è più grande di noi. La tentazione terribile che si affaccia in queste situazioni è quella di pensare che, lasciando tutto nelle mani di una più capillare e aggiornata intelligenza artificiale, nessuno sgradevole imprevisto sarà più all'orizzonte. L'uomo sbaglia, la tecnica no.
«È meglio rifugiarsi nel Signore che confidare nell'uomo. È meglio rifugiarsi nel Signore che confidare nei potenti» (Sal 117, 8-9). Questa è la strada che la parola di Dio ci indica e quest'altra è quella da cui ci insegna a stare lontani: «Maledetto l'uomo che confida nell'uomo, che pone nella carne il suo sostegno e dal Signore si allontana il suo cuore» (Ger 17, 5). L'articolo potrebbe finire qui, chiedendo solo al lettore di ripetersi queste parole all'infinito, perché spezzino tutti i legami dell'ideologia del progresso e lavino via tutti i resti dell'idolatria degli esperti, che albergano in noi, più di quanto pensiamo. Ma qualcosa in più dobbiamo dire, perché qualcosa si può, si deve fare.
«Gesù, se le poche case oneste di questo porco paese potessero galleggiare come l'arca di Noè, io vi direi: fate gonfiare il fiume, che strabocchi, spacchi l'argine e sommerga tutto il paese. Ma siccome la gente onesta vive in case uguali a quelle dei farabutti e sarebbe ingiusto punire i buoni per la colpa di questo Peppone e la sua ciurma di senza Dio e senza legge, o Dio, vi prego di salvare il paese dalle acque e di dargli prosperità. Amen». Molti avranno riconosciuto in questa singolare preghiera, la “benedizione” al fiume Po del celebre film Don Camillo e Peppone.
Sono scene che non si vedono più, per svariate ragioni. Primo, perché i preti non credono più a queste trovate di sapore “medievale”: se ci sono problemi ai fiumi, deve vedersela la Regione. Che razza di religione preconciliare sarebbe quella che si mette a pregare Dio di impedire ad un fiume di invadere un paese e travolgere delle case? Come può un prete del secondo e terzo millennio pensare di benedire le acque di un fiume perché da questa benedizione siano domate e tornino ad essere docili?
Secondo, perché non ci sono più i compagni del tenore di Peppone & Co. E se non ci sono, spiace dirlo, è perché semplicemente non trovano davanti a sé alcuna contrapposizione, alcuna identità chiara. Oggi non vediamo scene simili, semplicemente perché non c'è più alcuna ideologia che contrapponga compagni e preti, essendo ormai tutti dalla stessa parte; preti che, per disposizione della Conferenza episcopale, di cui l'arcivescovo di Bologna è oggi il felice presidente, non devono essere troppo “eccentrici” nel loro ministero. E in questo «porco paese» funziona che le coppie gay si devono benedire per decreto, ma i fiumi no.
Terzo, perché per pronunciare una preghiera così, e udirla senza gridare allo scandalo, è necessario avere ancora il senso di Dio e del nostro peccato; è necessario avere la consapevolezza che quanto ci capita ce lo meritiamo, perché abbiamo abbandonato Dio per volgerci agli idoli delle nostre mani. È necessario avere in cuore i sentimenti del timorato di Dio, come Tobi: «Ora, Signore, ricordati di me e guardami. Non punirmi per i miei peccati e per gli errori miei e dei miei padri. Violando i tuoi comandi, abbiamo peccato davanti a te. Tu hai lasciato che ci spogliassero dei beni; ci hai abbandonati alla prigionia, alla morte e ad essere la favola, lo scherno, il disprezzo di tutte le genti, tra le quali ci hai dispersi. Ora, nel trattarmi secondo le colpe mie e dei miei padri, veri sono tutti i tuoi giudizi, perché non abbiamo osservato i tuoi decreti, camminando davanti a te nella verità» (Tb 3, 3-5). E chi non è stato colpito, per ora, si guardi bene da pensare di essere meno peccatore degli altri: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Sìloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo» (Lc 13, 3-5).
Torniamo all'inizio di questo articolo. Se la gente ormai preferisce abbassare gli occhi verso la tecnica piuttosto che alzarli verso Dio, è perché non c'è più nulla di visibile che ricordi loro Dio. E siccome, nell'ottica comune, la benedizione è ancora una di quelle cose che mostra la vicinanza di Dio e fa parte del “mestiere del prete”, non vedere più i preti fare il loro mestiere contribuisce potentemente a far sparire Dio dall'orizzonte della vita. Dopo un'alluvione, gli operai salgono sulle ruspe, i volontari si armano di stivali e pale, ma perché i preti non fanno il loro mestiere? Perché non tornare a benedire questi fiumi? Perché non erigere, come si fa tradizionalmente, delle piccole edicole, di solito mariane, a protezione dei paesi dalla furia del fiume? Perché non tornare a pregare pubblicamente le Litaniæ sanctorum per domandare a Dio un tempo più mite?
Lancio una sfida: qui sotto riporto la benedizione contro le inondazioni, tratta dal Rituale romanum antico (perché il nuovo Benedizionale, grazie a qualche mente illuminata, non ce l'ha, sostituita da una generica benedizione dei fiumi e delle sorgenti). Portatela ai vostri sacerdoti, chiedete loro di benedire i fiumi e accompagnateli.
BENEDIZIONE CONTRO LE INONDAZIONI
Il sacerdote, con il popolo, porta agli argini del fiume la reliquia della Santa Croce e lì legge l'inizio dei quattro Vangeli; dopo ogni Vangelo aggiunga le seguenti preghiere.
V. Ádjuva nos, Deus salutáris noster.
R. Et propter glóriam nóminis tui líbera nos.
V. Salvos fac servos tuos.
R. Deus meus, sperántes in te.
V. Dómine, non secúndum peccáta nostra fácias nobis.
R. Neque secúndum iniquitátes nostras retríbuas nobis.
V. Mitte nobis, Dómine, auxílium de sancto.
R. Et de Sion tuére nos.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo.
Orémus.
Deus, qui justíficas ímpium, et non vis mortem peccatóris: majestátem tuam supplíciter deprecámur; ut fámulos tuos de tua misericórdia confidántes, ab aquárum perículis, cælésti prótegas benígnus auxílio, et assídua protectióne consérves: ut tibi júgiter famuléntur, nullísque tentatiónibus a te separéntur. Per Christum Dóminum nostrum. R. Amen.
Et benedíctio Dei omnipoténtis, Patris, et Fílii, + et Spíritus Sancti, descéndat super has aquas, eásque coérceat. R. Amen.
V. Aiutaci, Dio, nostra salvezza.
R. E liberaci, per la gloria del tuo nome.
V. Salva i tuoi servi.
R. Dio mio, che sperano in te.
V. Signore, non trattarci secondo i nostri peccati.
R. E non ripagarci secondo le nostre iniquità.
V. Mandaci, Signore, l'aiuto dal tuo santuario.
R. E difendici da Sion.
V. Signore, ascolta la mia preghiera.
R. E il mio grido giunga fino a te.
V. Il Signore sia con voi.
R. E con il tuo spirito.
Preghiamo.
O Dio, che giustifichi l'empio e non vuoi la morte del peccatore, supplichiamo la tua divina maestà: proteggi benigno dai pericoli delle acque, con il tuo celeste aiuto, i tuoi servi che in te sperano, e custodiscili con la tua divina protezione, perché servendoti sempre, nessuna tentazione li separi da te. Per Cristo nostro Signore. R. Amen.
E la benedizione di Dio onnipotente, Padre, e Figlio, + e Spirito Santo discenda su queste acque e le domi. R. Amen.
L’unione ipostatica (II parte)
Al Concilio di Calcedonia (451) si condannò il monofisismo, che riteneva che in Cristo fosse presente una sola natura. Un’eresia evolutasi in forme simili nei secoli successivi. Gli errori cristologici odierni e i chiarimenti della CDF nel 1972 e, con la Dominus Iesus, nel 2000.