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ISLAM

L'avanzata dell'Isis verso l'Italia e il Vaticano

Boko Haram manda uomini e mezzi in Libia, a rafforzare gli uomini dell'Isis, grazie al controllo delle rotte del Sahara. La Libia, come viene sbandierato ai quattro venti dai jihadisti, è intesa solo come la porta del vero attacco: quello in Europa, specialmente quello contro il Vaticano.

Esteri 05_09_2015
Obiettivo San Pietro nella propaganda dell'Isis

La minaccia jihadista si fa vicina. Il 24 agosto la Nigeria ha avvertito gli Stati Uniti e altre nazioni che il gruppo islamista Boko Haram ha mandato in Libia più di 200 combattenti ben equipaggiati per aiutare l’Isis a prendere il controllo del paese. Molti altri jihadisti nigeriani si appresterebbero a seguirli. Il portale nigeriano di informazione Naji.com ha pubblicato questa notizia il 29 agosto. Qualche giorno prima, intervistato dalla Jamestown Foundation, l’esperto nigeriano di antiterrorismo Jacob Zenn spiegava: “l’apertura delle rotte migratorie dalla Nigeria attraverso il Niger orientale fino alla Libia ha reso il viaggio di questi combattenti piuttosto semplice e l’Isis può facilmente permettersi di pagare i trafficanti per portare militanti e armi lungo questa rotta”. 

Il 1° settembre, sul quotidiano La Stampa, il giornalista Maurizio Molinari commentava: “È la prima volta che si ha notizia di un trasferimento di miliziani dalla Nigeria alla Libia per sostenere le operazioni di Isis e ciò lascia intendere che l’adesione al Califfo da parte di Boko Haram sta portando ad una cooperazione militare, probabilmente grazie al controllo delle rotte del Sahara attraverso il Niger. Fonti militari americane affermano che la tattica di Isis è operare in Libia controllando aree costiere e punti di confine nel deserto al fine di gestire traffici illeciti di uomini e merci da cui trarre ingenti profitti”.

La Libia inoltre è per l’Isis un punto strategico da cui colpire l’Europa, come spiega su Naji.com Vincent Pollard, ex comandante di una unità di polizia antiterrorismo: “mentre sempre nuovi terroristi si riversano nel paese per sostenere l’Isis, i suoi leader si vantano sui social media dicendo che useranno la loro vittoria in Libia per invadere l’Italia e attaccare il Vaticano”. 

Come si sia arrivati a questo è noto. La fine del regime del colonnello Gheddafi nel 2011 ha destabilizzato la Libia aprendola ai jihadisti. Quanto all’Africa subsahariana, la nascita di gruppi legati ad al Qaida, alcuni dei quali ora affiliati all’Isis, il loro moltiplicarsi, la formazione di reti transnazionali di cellule jihadiste, i loro intrecci con gruppi antigovernativi armati e con trafficanti di droga, armi, esseri umani, avorio: tutto questo è successo sotto gli occhi del mondo intero, informato grazie ai satelliti che riprendono da anni convogli di trafficanti, ribelli e terroristi mentre attraversano savane e deserti trasportando armi, merci e uomini. 

Ma nessuno ha mosso un dito ed ecco il risultato: così dicono molti accusando l’Occidente di attivarsi solo quando c’è di mezzo il petrolio. Non è affatto vero. Programmi militari per arginare il fenomeno sono stati avviati fin dal 2002-2003 quando gli Stati Uniti hanno varato la Pan Sahel Initiative e la East Africa Counterterrorism Initiative, due progetti che hanno interessato dieci stati africani. L’altro fronte di lotta è stata la cooperazione allo sviluppo: programmi per centinaia di miliardi di dollari per modernizzare paesi arretrati e crearvi le condizioni affinchè le loro risorse naturali – petrolio, platino, diamanti... – diventassero volano di crescita economica e sviluppo umano, togliendo ai terroristi gli argomenti – povertà, ingiustizie, malgoverno... – con cui reclutano nuove leve nelle città sature di gente risentita e delusa. 

Non è bastato. Molti gli errori, ma più di tutto ha contato la negligenza delle classi politiche africane troppo contaminate da corruzione e tribalismo per concepire il potere se non come opportunità di arricchimento e soddisfazione di ambizioni sfrenate. Così un nuovo problema si è aggiunto a quelli storici, e in gran parte irrisolti, del continente africano. 

Adesso quelle al Vaticano sono minacce, proclami bellicosi accompagnati su internet da immagini che mostrano la bandiera dell’Isis sventolare sul Vaticano e i simboli religiosi cristiani rimpiazzati da quelli islamici. Ma in Africa il pericolo è reale: in questo momento soprattutto in Nigeria, con Boko Haram, e in Somalia, a causa degli al Shabaab, i jihadisti legati ad al Qaida. Il presidente della Nigeria Muhammadu Buhari il mese scorso ha annunciato che, tempo tre mesi, e Boko Haram sarà sconfitto. Il primo ministro somalo Ali Sharmarke a giugno ha dichiarato che la guerra agli al Shabaab potrebbe concludersi entro fine anno. 

Ma intanto gli attentati continuano e si intensificano benchè sia Boko Haram sia al Shabaab abbiano perso le città e parte dei territori conquistati. Nella notte tra il 29 e il 30 agosto Boko Haram ha attaccato un villaggio nel Borno, sua roccaforte nel Nordest della Nigeria: si contano 56 morti. Altre 19 persone sono state uccise e 140 ferite il 2 settembre in Camerun, vicino alla frontiera con la Nigeria, quando due donne si sono fatte esplodere in un mercato affollato. Il 31 agosto dei jihadisti sono stati per la prima volta individuati e arrestati a Lagos, all’estremità sud occidentale del paese, il che fa temere che intendano estendere il loro raggio d’azione. In Somalia, il 1° settembre un commando al Shabaab ha attaccato una base della Amisom, la missione di pace dell’Unione Africa, uccidendo 50 soldati. Gli al Shabaab inoltre continuano a reclutare giovani combattenti sia in patria che nei paesi vicini.

I governi di Nigeria e Somalia continuano a dire che il moltiplicarsi degli attentati dimostra quanto Boko Haram e al Shabaab siano disperati, ormai allo stremo. Si direbbe piuttosto che abbiano deciso di adottare nuove tattiche, rinunciando per il momento al controllo di estesi territori.