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IL BEATO WOJTYLA

L'amore senza prezzo nella bottega di Karol

Contro l'edonismo moderno, Giovanni Paolo II nella sua opera teatrale ha espresso la bellezza di legami affettivi non egoistici.

Cultura 07_05_2011
Giovanni Paolo II Il matrimonio come via alla santità, al pari della vocazione alla verginità, è l’assunto centrale della Bottega dell’orefice, il magnifico testo teatrale di Papa Giovanni Paolo II, scritto nel 1960, quando Karol Wojtyla era ancora Vescovo di Cracovia. Tre dialoghi tra altrettante coppie si succedono secondo il ritmo paziente della coscienza che riflette sul passato e sulle scelte decisive per l’esistenza. Un personaggio accomuna le tre storie, quell’orefice che non prende mai direttamente la parola. La verità delle sue parole è rievocata nei dialoghi delle coppie.

L’amore coniugale sa unire ciò che è diviso, riempie di una presenza il desiderio umano e la domanda di compiutezza. «L’amore può essere anche uno scontro nel quale due esseri umani prendono coscienza che dovrebbero appartenersi, malgrado la mancanza di stati d’animo, e di sensazioni comuni. Ecco uno di quei processi che saldano l’universo, uniscono le cose divise, arricchiscono quelle grette e dilatano quelle anguste». L’unico amore che sa unire quanto è diviso, che sa raccogliere in un solo volume ciò che naturalmente è disperso è l’amore di Dio.

In maniera sorprendentemente simile Karol Wojtyla rappresenta l’amore tra i due sposi alla visione di Dio che Dante offre al termine della Commedia. Ecco perché quando Karol Wojtyla descrive il rapporto coniugale come unità sta alludendo al mistero sacramentale del matrimonio. Il matrimonio è sacramento, perché lì, nel matrimonio, il segno coincide con il Mistero, nell’unità degli sposi è presente Colui che rende possibile questa unità. Ciò che non è possibile agli uomini in Dio è possibile. Ora c’è un’analogia tra quell’amore umano così fragile che lega un uomo e una donna nel matrimonio fino all’accoglienza dei figli all’amore del Dio cristiano trinitario. Le fedi portate al dito «saranno loro a segnare il nostro destino. Ci faranno sempre rievocare il passato come fosse una lezione da ricordare. Ci spalancheranno ogni giorno di nuovo il futuro allacciandolo con il passato. E insieme, in ogni momento, serviranno a unirci invisibilmente come gli anelli estremi di una catena».

L’amore è la forza di attrazione, il legante più forte che esista. Le fedi da sole non hanno peso, non hanno valore, ricevono significato dalla comunione dei due sposi. Il peso delle fedi d’oro «è il peso specifico dell’essere umano». La fede è il segno di un amore che ha la portata di tutto il nostro destino. L’amore «non può durare un solo momento. L’eternità dell’uomo passa attraverso l’amore. Ecco perché si ritrova nella dimensione di Dio - solo Lui è Eternità». L’esperienza umana dell’amore è quanto più ci avvicina alla condizione divina, nell’esperienza dell’amore l’uomo prende parte della natura divina. Non c’è parola che possa essere pronunciata in nome dell’amore che possa avere una ristrettezza temporale o un limite spaziale. Nessuno potrebbe dire con verità parole d’amore alla propria donna se non con il desiderio che esse abbiano valore per l’eternità. Ciò che è per poco tempo è fasullo, non dura, non è vero.

Eppure tanta cultura contemporanea sprona a vivere solo l’istante seguendo un becero e superficiale carpe diem (cogli l’attimo). «Esistere solo un attimo, solo adesso – e recidersi dall’eternità. Prendere tutto in un momento e tutto subito perdere. Ah, maledizione dell’attimo che arriva dopo e di tutti gli attimi che lo seguono». L’uomo cerca spesso gli amori dimenticandosi dell’Amore, di quell’Amore di cui sentiamo la nostalgia e che ci manca. Così, nel secondo atto dell’opera, che vede protagonista una coppia in crisi (Stefano e Anna), l’amico Adamo sprona la donna a non fermarsi all’apparenza, bensì a guardare il desiderio profondo che alberga nel cuore dell’uomo. Al fondo di ogni amore c’è la nostalgia dello Sposo. Adamo cerca di persuadere Anna: «Al di là di tutti questi amori che ci riempiono la vita c’è l’Amore. Lo Sposo passa per questa strada e passa per tutte le strade! Come posso persuaderti che tu sei la Sposa. Bisognerebbe adesso perforare la crosta della tua anima».

Quanti amori, quanti rapporti, quanti matrimoni finiscono perché nei due sposi non si è approfondita la consapevolezza che il nostro desiderio di felicità non può essere colmato dalla persona che amiamo, ma non per questo lei vale di meno! In quante coppie l’entusiasmo iniziale si illude che il compagno o la compagna sia la risposta all’umana sete di felicità. L’inganno, però, in poco tempo si rivela tale e consiste nel considerare il compagno come il fine e la risposta, non come la strada vocazionale con cui siamo chiamati a riconoscere Colui che è l’unica risposta per la sete di felicità dell’uomo, cioè lo Sposo, Cristo. Solo guardando a Cristo, approfondendo il mistero della sua presenza nel sacramento del matrimonio ci rivolgiamo con verità alla persona che amiamo percependo che «amare vuol dire donare la vita attraverso la morte, amare vuol dire sprigionare dalle profondità dell’anima l’acqua viva della sorgente, l’anima che brucia, arde senza fiamma».

Nel terzo e conclusivo atto Cristoforo dialoga con Monica, la sua fidanzata. Cristoforo è figlio della coppia presentata nel primo atto, Teresa e Andrea, una coppia unita nello spirito, spezzata solo dalla guerra che si è portata via lui al fronte. Cristoforo che ha potuto conoscere il padre solo attraverso la madre Teresa rivela a Monica: «Non conosco mio padre, quindi non so cosa si chieda ad un uomo. Comincio la vita da capo. Non ho modelli pronti. Mio padre rimase in mia madre, quando cadde non so su quale fronte. Da me non veniva mai, non passava con me le sue giornate. L’idea del padre mi è stata innestata da lei – crescevo così, pensando più spesso di quanto credi al suo destino di donna, alla sua solitudine piena dell’assenza di lui che io ripresento in me. Ma per te non voglio un destino simile. Voglio la presenza». Vivo è il sentimento di gratitudine di Cristoforo, perché l’incontro con Monica gli ha permesso di conoscersi meglio e di comprendere la sua esistenza «come uno straordinario insieme».

L’incontro con la donna è come quel pezzo del puzzle che permette di vedere meglio l’immagine complessiva della propria esistenza. È un incontro di cui si ricordano la data, la circostanza, gli sguardi. Monica ha conosciuto entrambi i genitori, ma è piena di paura, perché la madre e il padre si sono separati, lasciando in lei una profonda insicurezza riguardo alla scelta matrimoniale che la spinge a chiedersi se possa l’amore umano «durare quanto la vita di un uomo». «L’amore è una sfida continua», ogni istante si gioca la nostra scelta di amare, di riaffermare la strada intrapresa un giorno verso il nostro destino. «Se il destino non spezzerà l’amore, sarà una vittoria dell’uomo». Cristoforo cerca con queste parole di guarire le ferite che la fidanzata ha ereditato dal rapporto dei suoi genitori. L’amore risana le ferite, ricompone i traumi, riempie le assenze e le mancanze. L’amore di Cristoforo per Monica è come se cercasse di donare a lei il padre Stefano e la madre Anna che hanno mancato al loro compito.

Infine, Cristoforo e Monica decidono di sposarsi. La figura di Adamo incarna l’uomo che è pienamente tale, è amico comune delle coppie Teresa e Andrea, Anna e Stefano. Lui porterà a Teresa la notizia della morte del marito al fronte, lui starà vicino a Cristoforo dandogli consigli come un padre, lui parlerà ad Anna cercandole di ricordare che al di là degli amori bisogna cercare sempre ed unicamente quell’Amore vero che dà senso e compie tutti gli altri amori e senza del quale tutti gli altri amori sono destinati a svanire come sogni fatui. Sarà Adamo a richiamare in un lungo monologo conclusivo il significato più profondo dell’amore: «Certe volte la vita umana sembra essere troppo corta per l’amore. Certe volte invece no – l’amore umano sembra essere troppo corto per una lunga vita. O forse troppo superficiale. In ogni modo l’uomo ha a disposizione una esistenza e un amore – come farne un insieme che abbia senso? E poi questo insieme non può essere mai chiuso in se stesso. Deve essere aperto perché da un lato deve influire sugli altri esseri, dall’altro sempre riflettere l’Essere e l’Amore assoluto. Deve rifletterli almeno in qualche modo».

Il matrimonio si presenta così come via alla santità e alla bellezza, via pulchritudinis, strada privilegiata per l’incontro con lo Sposo (Cristo) che prende per noi il volto del consorte della nostra esistenza, ma che non si esaurisce in lui. Si spalanca al contrario su tutto e verso tutti.