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L'amore coniugale - Il testo del video

I fini propri del matrimonio: il bene dei coniugi e il bene dei figli. Perché dono reciproco dei coniugi e castità sono strettamente legati. La fedeltà coniugale è irrevocabile e personale ed è l'elemento portante del consenso. Qualsiasi atto matrimoniale deve rimanere aperto alla trasmissione della vita. Metodi naturali e contraccezione.

Catechismo 12_02_2023

Proseguiamo il nostro percorso nel sesto comandamento. Negli ultimi due incontri, abbiamo visto la virtù della castità e le offese contro la castità. Oggi ci occupiamo, in particolare, dell’amore coniugale, di cui tratta il Catechismo della Chiesa Cattolica, a partire dal n. 2360. Vedremo, in un secondo momento, le offese al matrimonio.

Al n. 2361 il Catechismo salda la parte dedicata al dono reciproco dei coniugi con la castità. La castità, come abbiamo visto nelle ultime due puntate, non è qualcosa che riguarda solo le persone non sposate; la castità è una virtù dell’uomo, è una parte della virtù della temperanza, che riguarda ogni uomo. Dunque, al n. 2361, il Catechismo dice: «La sessualità, mediante la quale l'uomo e la donna si donano l'uno all'altra con gli atti propri ed esclusivi degli sposi, non è affatto qualcosa di puramente biologico, ma riguarda l'intimo nucleo della persona umana come tale. Essa si realizza in modo veramente umano solo se è parte integrante dell'amore con cui l'uomo e la donna si impegnano totalmente l'uno verso l'altra fino alla morte».

Si tratta di una lunga citazione del n. 11 di Familiaris Consortio. Questa parte salda il passaggio castità-matrimonio, perché c’è una continua sottolineatura della dimensione personale, propria della sessualità. Questa dimensione personale della sessualità - personale perché propria della persona umana, quindi non meramente istintiva, non egoistica - è possibile grazie all’esercizio della virtù della castità.

Questo numero del Catechismo ci dice molto chiaramente che la sessualità riguarda il nucleo della persona, quindi entra nella donazione propria della persona. In quelli che vengono definiti «gli atti propri ed esclusivi degli sposi», la dimensione della sessualità è presente, ma lo è in quanto integrata nella persona. Questo è importantissimo. Quello che ha di proprio l’atto coniugale è questa dimensione propriamente sessuale che nelle altre relazioni tra le persone non c’è, non può esserci. Ecco perché è un atto proprio del matrimonio, esclusivo; questo non significa che allora viene presa in considerazione la dimensione meramente biologica, bensì una dimensione certamente anche biologica ma integrata nella persona, integrata in quella vocazione - alta, pienamente umana - della donazione di sé al coniuge o alla coniuge. E in questa donazione c’è la realizzazione del dono di sé a Dio. Questo è il grande quadro che dobbiamo tenere presente.

In questa logica, è chiara l’importanza che ha il tirocinio della continenza prematrimoniale e il tirocinio della castità, una virtù che deve essere esercitata anche all’interno del matrimonio, anche  mediante il ricorso a dei periodi di continenza. Questo quadro va in qualche modo a scalzare la famosa obiezione secondo cui sarebbe importante che i fidanzati, in preparazione al matrimonio, si conoscano sotto l’aspetto della sessualità. Non è così. Il periodo del fidanzamento è, per eccellenza, il tirocinio della castità, cioè del mettersi alla prova nella virtù della castità, in particolare nella continenza vera e propria. Questo, di nuovo, è vero in ragione non di un giudizio negativo sulla sessualità, ma in ragione della capacità di integrare questa dimensione nella persona e viverla in quella che è il suo contesto proprio, che è il contesto matrimoniale. Perché “contesto proprio”? Non perché, culturalmente, qualcuno abbia preferito che lo sia, ma perché il matrimonio è la mutua donazione reciproca, la mutua donazione degli sposi, ed è in questa donazione che entra la sfera della sessualità. Quindi non si può staccare la sessualità da questo contesto.

È questa prospettiva - questa integrazione della sessualità nella persona - che permette che l’atto coniugale sia realmente quello che viene detto al n. 2362 del Catechismo, quindi sia realmente una «mutua donazione». Questa mutua donazione comporta due fini che la caratterizzano, mancando i quali non possiamo parlare di un’autentica mutua donazione, ma di un rapporto affettivo più o meno egoistico, con una dimensione della sessualità più o meno legata alla sfera dell’istintualità.

Quali sono questi due fini propri del matrimonio? Sono il cosiddetto bonum coniugum, il bene dei coniugi, il bene degli sposi, e il bonum prolis, il bene della prole, il bene dei figli, la trasmissione della vita, intesa nella sua accezione più ampia, cioè, di nuovo, non semplicemente come un atto biologico di procreazione, ma una trasmissione della vita, un’educazione della vita mirata al bene dei figli. Dunque, c’è mutua donazione quando c’è questa duplice finalità; e quando c’è questa duplice finalità si raggiunge la mutua donazione. Ecco perché è impossibile pensare - è una contraddizione in termini - a un matrimonio che non abbia questa duplice finalità, cioè che non tenda al bene proprio dei coniugi (da capire in senso retto) e al bene proprio della prole.

Notare che parliamo di bonum: non parliamo di “benessere” emotivo, di “realizzazione” umana come se ne parla oggi; non parliamo assolutamente di mancanza di prove e di sofferenze, proprio perché il bene dei coniugi, come anche il bene della prole, viene fuori anche proprio attraverso le prove, attraverso la resistenza a ciò che mina la natura stessa del matrimonio. Dunque, non bisogna pensare che il “bene dei coniugi” significhi che, se uno non si trova più bene, allora si può mettere da parte il matrimonio: non è assolutamente così. Il matrimonio, la mutua donazione è finalizzata al bene dei coniugi. Il bene dei coniugi va inteso secondo l’estensione propria della vocazione della persona umana all’amore di Dio, alla purificazione di sé, perché l’uomo è nella condizione decaduta. Quindi, noi dobbiamo imparare a purificare il nostro desiderio, il nostro amore, a renderlo sempre meno egoistico; e questo significa passare attraverso la croce, fino alla sublimazione del dono di sé e dell’amore, che il Signore ci indica nell’amore per il nemico. Ecco perché - poi lo vedremo - l’infedeltà di uno dei due coniugi non giustifica mai l’infedeltà dell’altro; l’infedeltà non deve chiamare altra infedeltà, ma deve invece chiamare una fedeltà a tutta prova.

Questi due significati del matrimonio, come ci dice il Catechismo al n. 2363, non possono mai essere disgiunti: «Mediante l'unione degli sposi si realizza il duplice fine del matrimonio: il bene degli stessi sposi e la trasmissione della vita. Non si possono disgiungere questi due significati o valori del matrimonio, senza alterare la vita spirituale della coppia e compromettere i beni del matrimonio e l'avvenire della famiglia. L'amore coniugale dell'uomo e della donna è così posto sotto la duplice esigenza della fedeltà e della fecondità» (CCC, 2363).

Bisogna richiamare quella che è una dottrina classica, formulata la prima volta nel De bono coniugali di sant’Agostino, e che parla dei cosiddetti tria bona, i tre beni del matrimonio, cioè: fides, proles, sacramentum. Quindi, bonum fidei, bonum prolis, bonum sacramenti. Questi tria bona, questi tre beni si intrecciano con i due fini del matrimonio, ma nell’ottica di sant’Agostino indicano i beni propri del matrimonio, ossia ciò che rende il matrimonio lodevole e onorevole. E chiaramente i tre beni accompagnano sempre, per così dire, il matrimonio, proprio perché esprimono il bene proprio del matrimonio.

Fides indica qui la fedeltà (non la fede teologale), che è un bene del matrimonio ed è anche ciò che permette il raggiungimento del primo fine del matrimonio, cioè il bene dei coniugi; allo stesso tempo, la fedeltà reciproca dei coniugi è una condizione per il bene della prole.

La prole stessa è un bene proprio del matrimonio e, di nuovo, i figli sono un bene non solo in sé, ma sono anche un bene dei coniugi che in questo modo trovano la realizzazione della propria donazione reciproca e trasmettono ulteriormente la propria capacità di bene, di amore, alla discendenza, ai propri figli.

Terzo bene è il bonum sacramenti, che è la dimensione propriamente cristiana del matrimonio, la dimensione sacramentale. Perché sacramentale? Perché, come ci spiega san Paolo, il matrimonio è un mysterium magnum, è un grande mistero, perché esprime le grandi nozze tra Cristo e la sua Chiesa. Bisogna avere sempre presente questa prospettiva, la quale determina - a livello sacramentale - il fondamentale bene della fedeltà e della prole. Questo perché, appunto, Cristo è sempre fedele alla sua Sposa, ha dato Sé stesso per Lei, e in questo dono per Lei l’ha resa feconda. Quindi, nel bonum sacramenti vengono elevati a livello sacramentale, soprannaturale, i due beni che abbiamo visto prima, fides e proles. Non sono semplicemente delle cose che si giustappongono una all’altra, ma in qualche modo ognuna è legata ed è motivata dall’altra. Questo è importante capirlo nella dimensione cristiana, cioè: l’elemento sacramentale si fonda, per così dire, sull’elemento naturale, ma in qualche modo esprime ed eleva la dimensione naturale. Ed è anche una ragione ulteriore per capire che il matrimonio non può essere qualcosa di temporaneo o revocabile.

Il Catechismo passa poi a vedere, più da vicino, i due fini del matrimonio e dedica i nn. 2364 e 2365  alla fedeltà coniugale e quelli dal 2366 in poi alla fecondità del matrimonio. E poi c’è una sezione dedicata appunto al dono del figlio (nn. 2373-2379).

Iniziamo a trattare la fedeltà coniugale. Qual è la radice che sostiene questo bene e fa nascere il matrimonio? È il consenso. Il consenso è importante, perché nel Catechismo, che riprende la Gaudium et Spes, esso porta con sé una duplice aggettivazione, e cioè è definito: 1) irrevocabile; 2) personale.

«Irrevocabile» vuol dire che il consenso è dato non pro tempore, ma in modo definitivo. Perché definitivo? Perché è un consenso a una mutua donazione di persone. Non è semplicemente un consenso per un contratto a termine per un pezzo di terreno… Ha quindi una dimensione che è «personale», e questo è il secondo aggettivo ripreso dal Catechismo. Questi due aggettivi - irrevocabile e personale - sono importanti, perché ci dicono se c’è realmente un consenso. Nei processi per la dichiarazione di nullità del matrimonio, il consenso è uno degli elementi fondamentali, l’elemento cardine che viene verificato. Per determinare l’esistenza del consenso, nei processi, si verifica se si intendeva l’irrevocabilità e se si trattava di un consenso personale, cioè dato da una persona minimamente in grado di esprimere il consenso stesso, in quanto a capacità e libertà.

Quando c’è un vizio del consenso, un vizio serio, che viene indagato e dichiarato tale da un regolare processo, non è che si “annulla” un matrimonio, proprio perché il matrimonio è (per definizione) indissolubile; semplicemente si dichiara che non c’è stato un vero e proprio consenso, il consenso è stato manchevole, e quel matrimonio non c’è mai stato, in questo senso è nullo. Quindi, non si “annulla” il matrimonio. La Chiesa non può annullare un matrimonio rato e consumato perché Dio stesso ha detto che l’uomo non può separare ciò che Dio ha unito. La Chiesa non ha nessun potere da questo punto di vista [c’è un potere del papa sul matrimonio solo rato, per circostanze gravi]; può invece verificare se effettivamente è stato celebrato un vero e proprio matrimonio e se è stato dato un vero e proprio consenso, al di là della “parte esterna” che si è potuta verificare. Il consenso che viene dato dagli sposi si consuma quando loro diventano «una caro», una sola carne.

Questo consenso indica chiaramente la volontà di fedeltà: questo è l’elemento portante del consenso. La fedeltà non è condizionata, del tipo «se tu mi sei fedele, allora lo sono anch’io». Questa fedeltà partecipa - essendo elevata al livello sacramentale - della fedeltà di Cristo alla sua Chiesa. La fedeltà di Cristo non è condizionata; Dio si è dato totalmente alla sua Chiesa, ha espresso la sua fedeltà totale alla sua Chiesa, che deve rispondergli secondo la stessa radicalità, la stessa fedeltà, la stessa totalità, la stessa irrevocabilità. Il matrimonio esprime, o meglio, partecipa di questa dinamica della fedeltà di Cristo alla sua Chiesa. A fortiori, dunque, non è possibile pensare a un consenso condizionato.

Al n. 2366 del Catechismo inizia, come dicevamo, la sezione dedicata alla fecondità del matrimonio: «La fecondità è un dono, un fine del matrimonio; infatti l'amore coniugale tende per sua natura ad essere fecondo». Quindi, il matrimonio e i figli non sono cose separate, ma il matrimonio fiorisce nel dono dei figli; poi, per altre ragioni, non volute dagli sposi, questo dono può non venire, ma per sua natura è così. Anche un matrimonio che non ha potuto conoscere una fecondità nei propri figli rimane un matrimonio fecondo, un matrimonio che raggiunge il suo fine proprio, perché non c’è stata una volontà degli sposi di mettere un “divieto” da questo punto di vista. Per questa ragione, proprio perché l’amore coniugale, per sua natura, deve essere fecondo, il Catechismo, sempre al n. 2366, riporta due paragrafi di Humanae Vitae.

Il primo è questo: «qualsiasi atto matrimoniale deve rimanere aperto per sé alla trasmissione della vita» (HV, 11). E aggiunge: «Tale dottrina, più volte esposta dal Magistero della Chiesa, è fondata sulla connessione inscindibile, che Dio ha voluto e che l'uomo non può rompere di sua iniziativa, tra i due significati dell'atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo» (HV, 12), significati che sono i due lati della stessa medaglia.

Il Catechismo e il testo di Humanae Vitae sono precisi: cioè non dicono «il matrimonio in generale», bensì «qualsiasi atto matrimoniale»: ossia, qualsiasi atto coniugale «deve rimanere aperto per sé alla trasmissione della vita». È importante ribadirlo perché questo è un aspetto che oggi purtroppo è finito sotto un fuoco incrociato - un “fuoco amico”, un fuoco interno (alla Chiesa) - per cui si vuole spostare il problema dicendo che il matrimonio in generale può essere aperto alla vita, ma i singoli atti matrimoniali possono anche non esserlo. Ma così si crea una dicotomia tra il matrimonio e l’atto matrimoniale, come se l’atto matrimoniale possa non inverare quello che si vuole in generale per il matrimonio: è chiaramente una contraddizione. Possiamo dire che, così, il particolare nega ciò che afferma il generale: quindi, c’è una contraddizione oggettiva.

Qui si apre il grande capitolo della cosiddetta «paternità responsabile o regolazione della procreazione», e quello della continenza periodica, dei metodi di regolazione delle nascite e del ricorso ai periodi infecondi. Chiaramente, il Catechismo dice che ci possono essere dei validi motivi per cui gli sposi possono decidere di distanziare le nascite dei loro figli. Il matrimonio non è una gara a chi fa più figli in meno tempo, così come non è neanche la ricerca del figlio perfetto; queste sono logiche che non hanno nulla a che fare con la logica della mutua donazione.
Essendo la procreazione un atto della persona, e non un atto meramente biologico, i coniugi possono valutare di distanziare le nascite per motivi che devono essere chiaramente proporzionati. Infatti, il Catechismo, al n. 2368, dice che gli sposi (che intendono distanziare le nascite dei loro figli) «devono però verificare che il loro desiderio non sia frutto di egoismo, ma sia conforme alla giusta generosità di una paternità responsabile. Inoltre regoleranno il loro comportamento secondo i criteri oggettivi della moralità». Dunque, non secondo criteri del tipo «mi va, non mi va; ho voglia, non ho voglia; è un peso, non è un peso», ma secondo criteri oggettivi.

Ora, questo distanziamento delle nascite può essere fatto in un modo solo. Il n. 2369 del Catechismo ci dice che bisogna conservare i due «aspetti essenziali, unitivo e procreativo». Per questa ragione, i cosiddetti “metodi naturali” o il ricorso ai periodi infertili sono l’unica possibilità, ma non perché qualcuno lo ha deciso arbitrariamente, ma perché con il ricorso ai periodi infertili l’atto coniugale viene mantenuto integro nel suo duplice significato di unione dei coniugi e di apertura di per sé alla procreazione, che poi, per delle ragioni di ciclo naturale, non avviene, può non avvenire. Questo è molto importante.

Dall’altra parte, al n. 2370, il Catechismo ribadisce, richiamando di nuovo Humanae Vitae, l’impossibilità di escludere il significato procreativo. Questa è una parte importantissima, veramente da imparare a memoria, perché definisce come intrinsecamente cattiva (ciò vuol dire che una data azione non può mai essere ordinata al bene, neanche se le intenzioni soggettive di chi la compie fossero le più lodevoli del mondo) «ogni azione che, o in previsione dell'atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga, come scopo o come mezzo, di impedire la procreazione» (HV, 14). Tutta questa definizione noi la chiamiamo contraccezione. È da notare la precisione di questo testo quando parla di: 1. un’azione che viene fatta in previsione dell’atto; 2. o durante l’atto; 3. o per impedire che l’atto coniugale produca le sue conseguenze naturali di procreazione; ancora, 4. che «si proponga, come scopo o come mezzo, di impedire la procreazione».

Il Catechismo conclude questa parte sulla fecondità del matrimonio con due brevi paragrafi. Uno importantissimo, il n. 2371, che ricorda che il matrimonio - come la vita dell’uomo - è chiamato sempre a guardare alla prospettiva dell’eternità. Non si possono valutare scelte all’interno del matrimonio - incluse quelle di una procreazione responsabile e di apertura alla vita - senza tenere la prospettiva del destino eterno. Senza questa prospettiva le considerazioni vengono falsate, appiattite su un livello puramente orizzontale che ci arena nei pro, nei contro, nelle difficoltà. Quando pensiamo invece al destino eterno (nostro e dei nostri figli) e anche al soccorso di Dio, tante problematiche si stemperano.

Infine, l’ultimo paragrafo, il n. 2372, ribadisce che, nel rapporto famiglia-Stato, lo Stato non può intervenire d’autorità a determinare, quindi a sostituirsi a quella che è la responsabilità propria degli sposi, cioè la procreazione e l’educazione dei figli. Lo Stato può, dice il Catechismo, «orientare l’incremento della popolazione», può dare «un’informazione obiettiva e rispettosa» (quindi, non una propaganda invasiva, unilaterale, offensiva, ecc.), ma «non può sostituirsi» agli sposi, che sono gli ultimi decisori, hanno la responsabilità ultima della procreazione e dell’educazione dei figli.