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effetto trump

L'America è il Male, se conviene all'establishment

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Il disinvolto ricorso a una demonizzazione degli Stati Uniti storicamente viene attivato in Europa "a comando", guarda caso, quando negli Stati Uniti è al potere un presidente estraneo a quell'establishment che intrattiene rapporti organici con le élite del Vecchio Continente. 

Editoriali 12_03_2025

Da quando Donald Trump è tornato alla Casa Bianca un clima plumbeo di imminente apocalisse si è insediato tra la classe politica, gli intellettuali, i media europei: quelli di sinistra, ma anche molti sedicenti "liberali". Il presidente statunitense è stato dipinto come portatore di ogni peggiore catastrofe immaginabile. Nemico dei "diritti", in quanto ha osato sfidare l'egemonia ideologica woke che prima nella propaganda occidentale a reti unificate trionfava indisturbata. Nemico dei poveri del mondo, in quanto ha tagliato i fondi dell'USAID, che, con l'alibi degli aiuti ai paesi in difficoltà, finanziavano a piene mani il suddetto indottrinamento a senso unico. Nemico delle "magnifiche e progressive" sorti dei mercati globali per aver usato l'arma dei dazi assai più largamente usata però da europei e cinesi contro gli Stati Uniti. E via dicendo. 

Ma il peccato imperdonabile del tycoon newyorkese, quello che lo ha fatto additare letteralmente come un pericolo pubblico ai quattro angoli del vecchio continente, è stato quello di avviare trattative con la Russia per porre fine alla guerra russo-ucraina che si trascina da più di tre anni, e ha provocato forse più di un milione di vittime; e quello di farlo anche a dispetto della volontà del presidente ucraino Zelensky di continuare il conflitto ad oltranza, nonostante egli debba soltanto al sostegno americano il fatto che l'Ucraina oggi non sia stata annessa da Mosca ed esista ancora.

Proprio questa determinazione del presidente statunitense a trovare ad ogni costo un accordo di pace ha gettato le élites europee in una crisi di nervi quotidiana fuori controllo, provocando le risposte più scomposte e improbabili: il comico piano "Rearm Europe" di Usrula von der Leyen (un progetto di soli debiti a carico degli stati), le grottesche pretese di Emmanuel Macron di fare da guida e "ombrello nucleare" del continente in condizioni di disparità dramamtiche rispetto a Russia e Stati Uniti; le rinnovate spinte a una difesa comune dell'Ue, senza uno straccio di tessuto istituzionale federale comune né controllo dal basso. 

Ora, è evidente come queste "piazzate" plateali, dietro la retorica copertura della volontà di difendere la libertà e la democrazia da una del tutto ipotetica minaccia di Putin a tutto il continente, siano espressione, da un lato, di acuta frustrazione psicologica per l'assoluta irrilevanza globale delle classi politiche europee; dall'altro, di motivazioni utilitaristiche di "bassa cucina": come l'aspirazione a "rianimare" le industrie tedesche ammazzate dal green deal attraverso la loro riconversione nella produzione di armamenti, pagati con i soldi dei partner Ue; o il tentativo di Macron di attrarre quegli stessi soldi per finanziare il riarmo francese, assicurandogli nel continente una leadership che ormai in patria nessuno gli riconosce, e che mantiene solo attraverso spericolate manovre di palazzo. 

Ma l'aspetto che colpisce di più, in queste reazioni pirotecniche, è l'ennesimo, disinvolto ricorso a una demonizzazione degli Stati Uniti che storicamente viene attivata in Europa "a comando" quando serve, appunto, agli scopi politici più disparati o ai miti ideologici dominanti: e cioè, guarda caso, sempre quando negli Stati Uniti è al potere un presidente appartenente al Partito repubblicano, quindi estraneo a quell'establishment politico, economico-finanziario, culturale d'Oltreoceano che invece intrattiene rapporti organici e costanti, per non dire di controllo, sulle élite del vecchio continente. 

Chi ha sufficiente memoria, o ha studiato appena appena la storia del secondo Novecento, ricorderà che il presidente Ronald Reagan veniva dipinto, una quarantina di anni or sono, con toni altrettanto radicalmente ostili, sprezzanti e apocalittici di quanto oggi venga dipinto Trump, ma per motivi assolutamente opposti.

Per i media, la sinistra, gli intellettuali che "piacciono alla gente che piace" Reagan era il "cowboy", l'"attore", il rozzo populista, il feroce guerrafondaio che rischiava di scatenare la terza guerra mondiale, perché osava contrastare con decisione sul piano degli armamenti l'Unione sovietica tardo-brezneviana e post-brezneviana. Allora i leader europei che ebbero il coraggio di schierarsi al fianco degli Stati Uniti consentendo il dispiegamento degli "euromissili" Pershing e Cruise, come Craxi e Mitterrand, erano additati da una propaganda aggressiva quanto quella attuale come assassini dei loro popoli, e contro di loro venivano convocate di continuo oceaniche manifestazioni pacifiste (in realtà anti-americane e anti-Nato). E non si sentivano difendere, se non da parte di pochissimi nel mondo liberale o cattolico, le ragioni della libertà dei popoli dei paesi allora "satelliti" dell'Urss, e tanto meno dei paesi baltici o dell'Ucraina. 

Non parliamo poi della demonizzazione inflitta in seguito ai due presidenti Bush, padre e figlio, per le loro guerre contro il regime di Saddam Hussein (raffigurato, quest'ultimo, quasi come una vittima innocente), e del disprezzo con cui venne trattato il tentativo del secondo (invero velleitario, ma questa è un'altra storia) di instaurare in Iraq un regime liberaldemocratico. 

Tanti Catoni che oggi si stracciano le vesti per la difesa delle democrazie contro gli "autocrati", allora ridicolizzavano ogni tentativo di favorire una democratizzazione del mondo islamico. E simpatizzavano, allora, proprio per Vladimir Putin, che congiuntamente a leader europei come Chirac e Schroeder (poi divenuto suo dipendente alla Gazprom) si schierava con decisione contro l'intervento americano a Baghdad. 

Il disimpegno degli Stati Uniti dall'Iraq, deciso da Barack Obama (viceversa celebrato come americano "buono" e premio Nobel per la pace "a prescindere"), non venne accolto certo allora da allarme e solidarietà per i poveri iracheni abbandonati, ma con applausi e sollievo nel vecchio continente, da parte di quegli stessi che poi applaudirono lo stesso Obama anche quando appoggiò le "primavere arabe", rivelatesi ben presto un sanguinoso tentativo dei fondamentalisti islamici di conquistare il potere in Nordafrica e in Medio Oriente. 

Se non che, negli ultimi anni il quasi unanime applauso pacifista e "pacioccone" europeo regolarmente tributato ad ogni presidente "amico" si è tramutato rapidamente in un altrettanto quasi unanime applauso a Joe Biden per la sua linea bellicista e il suo "muro contro muro" contro Putin, che ha gettato benzina sul fuoco di un conflitto che Kiev non poteva vincere, anziché favorire tentativi di risolverlo.

E, dopo anni di furia guerresca, quell'applauso diventa oggi, per converso, il vituperio sdegnato contro il presidente "nemico" in quanto repubblicano, "colpevole" di voler raggiungere una pace e una sicurezza comune della quale l'Europa avrebbe in verità un enorme bisogno, e senza minimamente negare al continente la protezione militare, pur pretendendo un impegno finanziario congruo da parte degli alleati. Richieste che, fossero fatte da un altro (e Biden le aveva fatte) sarebbero state considerate ragionevoli. Ma al cuore della partigianeria e del pregiudizio, si sa, non si comanda.