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DENATALITà

L’allarme del Nyt: avremo più funerali che compleanni

Anche il giornale progressista ha dedicato un lungo articolo a tre firme al calo delle nascite rilevandolo come un grosso problema e rimproverando anche l’Europa. Quello che manca è l’analisi dell’ideologia (dal New York Times sponsorizzata) che ha prodotto l’inverno demografico e una miopia grave sui possibili benefici di un pianeta spopolato.

Attualità 03_06_2021

Per anni, anzi decenni l’inverno demografico era rimasto una preoccupazione degli ambienti cattolici più conservatori. Come se si trattasse di una fissazione settaria, un pensiero da gente un po’ strana. Oggi però la musica è cambiata e il tema, un tempo esclusiva di cerchie ristrette, guadagna attenzione, come provano anche i recenti Stati generali della natalità, cui hanno preso parte il primo ministro, Mario Draghi, e addirittura papa Francesco.

Che la faccenda sia seria è altresì provato da un lungo articolo apparso alcuni giorni fa – e di cui pochi sembrano essersi accorti – sul giornale più importante del mondo. Stiamo parlando di Long Slide Looms for World Population, With Sweeping Ramifications, articolo uscito sul New York Times lo scorso 22 maggio. A colpire di questo lungo intervento a firma di tre autori - Damien Cave, Emma Bubola e Choe Sang-Hun – è anzitutto il tono, nel senso che l’inverno demografico vien descritto come un tsunami enorme, che sta travolgendo l’intero pianeta, non soltanto una parte; non più. «In tutto il mondo» si legge infatti nell’articolo, «i Paesi sono alle prese con la stagnazione della popolazione, un calo della fertilità e un capovolgimento vertiginoso e senza eguali nella storia. Ciò renderà le feste del primo compleanno uno spettacolo più raro dei funerali e le case vuote diffuse».

Nel campanello dall’allarme suonato dalla celebre testata liberal, non mancano chiari richiami all’Europa e, naturalmente, all’Italia: «I reparti di maternità in Italia stanno già chiudendo. Nel nord-est della Cina stanno facendo la loro comparsa della città fantasma. Le università in Corea del Sud non riescono a trovare abbastanza studenti e in Germania centinaia di migliaia di proprietà sono state rase al suolo e i terreni sono stati trasformati in parchi». Se non è uno scenario apocalittico, possiamo dire che davvero poco ci manca.

Pur di non tradire la propria fede progressista, il New York Times cerca di vedere del buono anche in questa allarmante situazione. «Un pianeta con meno persone», viene ipotizzato, «potrebbe allentare la pressione sulle risorse, rallentare l'impatto distruttivo del cambiamento climatico e ridurre gli oneri familiari per le donne». Inutile sottolineare come si tratti, in quest’ultimo caso, di null’altro che meri auspici. In ogni caso, il giornale newyorkese non manca di denunciare cambiamenti «difficili da affrontare», che tra non molto potrebbero «capovolgere il modo in cui le società sono organizzate», portando ad una «riconcettualizzazione della famiglia e della nazione» con «intere regioni in cui tutti hanno 70 anni o più» e i «governi» che saranno costretti a varare «enormi bonus per gli immigrati e le madri con molti bambini», con una società «piena di nonni e le pubblicità del Super Bowl che promuovono la procreazione». Anche qui, non uno scenario particolarmente roseo e per il quale ci si dovrebbe iniziare seriamente a preoccupare dal momento che, scrive sempre il New York Times, se si guarda la curva demografica «la caduta inizia a sembrare una roccia lanciata da una scogliera».

Ora, dal punto di vista strettamente demografico questo pur rilevante articolo non contiene nulla di nuovo dal momento l’autorevole rivista Lancet, nell’estate scorsa, aveva già pubblicato uno studio su 195 nazioni dal quale si evinceva come, a metà di questo secolo o poco dopo, la popolazione mondiale inizierà a decrescere e il pianeta da un lato a spopolarsi e, dall’altro, ad invecchiare ulteriormente, con tutte le drammatiche conseguenze del caso. Ciò nonostante, che una testata come il New York Times - sia pure quasi fuori tempo massimo – inizi ad occuparsi della denatalità, e per di più con toni tutto fuorché rassicuranti, fa senza dubbio pensare.

Quel che ancora manca, in questi pur condivisibili campanelli d’allarme, è però un’autocritica che prima o poi qualcuno dovrà pur fare. Sì, perché gli scenari catastrofici che si profilano non sono affatto casuali, tutt’altro. Rappresentano l’evitabile epilogo di sistemi sociali ed economici che per decenni hanno bistrattato la famiglia, irriso la natalità e marginalizzato la religione, balsamo di entrambe. Se il pianeta si avvia a trasformazioni demografiche devastanti, è insomma perché si è alacremente lavorato – in modo consapevole o meno, a questo punto cambia poco - per un mondo non sostenibile: sotto il profilo antropologico, s’intende, molto prima che ambientale.