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GRANDI CAPOLAVORI CRISTIANI/12

L’abisso di vita e il desiderio di infinito dl Miguel Mañara

Nato nel 1877 a Czereïa, ad est di Minsk, in Lituania, nel 1889 Oscar Vladislas de Lubicz Milosz si trasferisce a Parigi, che nel 1909 diviene sua dimora definitiva. Perse tutte le proprietà in Lituania in seguito alla rivoluzione bolscevica del 1917. Tra le sue opere teatrali spicca senza dubbio il dramma Miguel Mañara.  

Cultura 07_08_2016
Lo scrittore Vladislas de Lubicz Milosz

Nato nel 1877 a Czereïa, ad est di Minsk, in Lituania, nel 1889 Oscar Vladislas de Lubicz Milosz si trasferisce a Parigi, che nel 1909 diviene sua dimora definitiva. Perse tutte le proprietà in Lituania in seguito alla rivoluzione bolscevica del 1917, Oscar Milosz muore nel 1939.

Tra le sue opere teatrali spicca senza dubbio il dramma Miguel Mañara, scritto nel 1912. Miguel Mañara Vicentelo de Leca, figura storica realmente esistita, nasce a Siviglia nel 1627, proveniente da una famiglia di origine aristocratica e fra le più ricche della città. Insignito del titolo di cavaliere di Calatrava, don Miguel è «l'uomo più superbo, temerario e collerico che si possa immaginare; turbolentissimo, tanto che non si sentiva parlare d'altro che delle liti e delle sfide in cui si quotidianamente si cacciava» (secondo la testimonianza di un nipote). Non possiamo invece attestare con certezza che fosse un casanova. 

A ventun anni si sposa con Jerónima Carrillo de Mendoza, di un anno più giovane. Nell’incontro con questa donna Miguel Mañara cambia. Ma nel 1661 Jerónima muore. Dopo un periodo di crisi entra nella Confraternita della Carità. Fonda un ospedale per assistere i bisognosi. Nel 1679 muore lasciando questo testamento: «Io, Don Miguel Mañara, cenere e polvere, sciagurato peccatore, che per la maggior parte dei miei giorni malvissuti ho servito Babilonia e il demonio, suo principe, con mille atti abominevoli e superbi, con adulteri, bestemmie, scandali e furti, i cui peccati e le cui malefatte sono senza numero, e solo la grande sapienza di Dio può contarli, la sua infinita pazienza sopportarli, la sua infinita misericordia perdonarli […] È mia volontà che sulla mia tomba sia posta una lapide con incise queste parole: “Qui giacciono le ossa del peggior uomo che sia stato al mondo. Pregate Dio per lui”».

Qualche decennio prima della morte di Miguel Mañara, nel 1630, nel El Burlador de Sevilla y convidado de piedra il drammaturgo spagnolo Tirso da Molina aveva creato la figura del Don Giovanni, un donnaiolo, preso dal piacere e dalla libertà del vivere, senza rapporti e legami. Probabilmente a Siviglia avviene la sovrapposizione tra il Miguel Mañara storico e il Don Giovanni letterario. Anche Molière, Lorenzo da Ponte, Karl Hoffmann, tra gli altri, saranno affascinati e colpiti dal don Giovanni leggendario che è stato consegnato alla tradizione, rivisitato in base ai secoli. Molière ci presenta un libertino, mentre Lorenzo Da Ponte ci offre un testo musicato da Mozart  in cui la seduzione si unisce alla sfrontatezza e al prometeismo del personaggio che, sfidando ogni morale, osa contrapporsi consapevolmente alla divinità.

Karl Hoffmann nell’Ottocento (1813) ne costruisce il tipico eroe romantico che mosso dallo streben (dalla tensione verso l’assoluto) sente profondamente l’inquietudine (sehnsucht nella terminologia romantica tedesca) di un infinito irraggiungibile: il gran numero di storie denunciano l’insoddisfazione esistenziale e il tentativo di raggiungere la felicità piena attraverso gli amori e i piaceri. Nel Novecento, Oscar Vladislav de L. Milosz ci presenta un Don Giovanni diverso, simile a quello della tradizione solo nei primi trent’anni di vita. La storia da lui raccontataci parte, infatti, laddove gli autori sopra ricordati l’avevano lasciata. Miguel Mañara è il titolo dell’opera teatrale, divisa in quadri come a voler riprendere le sacre rappresentazioni medioevali: questi quadri hanno la funzione di atti, separati tra loro da un lasso di tempo spesso notevole, imperniati sui momenti salienti della vita del protagonista, realmente vissuto nella Siviglia  del Seicento.

Nel primo quadro Miguel Mañara appare lacerato, quasi sfinito dal desiderio di felicità infinito che lo contraddistingue. Di fronte agli amici che lo invidiano o ammirano per il successo con le donne egli manifesta tutta la sua insoddisfazione e la sua tristezza: il passaggio da una donna all’altra è, infatti, in senso leopardiano da intendersi come il passaggio da un piacere all’altro alla ricerca di una felicità infinita, dell’amore assoluto. Licenzioso, scevro di ogni morale e di ogni senso di responsabilità, il protagonista riacquista qui una sua fisionomia umana, nel riappropriarsi di un animo che gli altri Don Giovanni sembravano aver perso: anche nell’intorpidimento dei sensi e nel calcolo egoistico egli è pur mosso da quel desiderio di infinito che è legge dell’animo umano. 

È così sfrontato che osa esclamare: «Vi giuro sul mio onore e sulla testa del vescovo di Roma che il vostro Inferno non esiste, che non è mai arso se non nella testa di un Messia pazzo o di un cattivo monaco [...]. Non raggiungere Dio è senz’altro un’inezia, ma perdere Satana è grande dolore e noia immensa, in fede mia». Ben cosciente del male, Miguel Mañara ha attraversato l’universo dei piaceri: «Ho trascinato l’Amore nel piacere, e nel fango, e nella morte; fui traditore, bestemmiatore, carnefice; ho compiuto tutto quello che può fare un povero diavolo d’uomo, e vedete». 

Come l’Innominato prova ad un certo punto un peso per le sue malefatte, dopo aver acconsentito ad aiutare Don Rodrigo nell’impresa scellerata del rapimento di Lucia, così Miguel Mañara sente un certo disgusto per l’ebbrezza di piaceri che lascia un vuoto immenso: «Ho servito Venere con rabbia, poi con malizia e disgusto. Oggi le torcerei il collo sbadigliando […]. Ho sofferto, sofferto molto. L’angoscia mi ha fatto cenno, la gelosia mi ha parlato all’orecchio, la pietà mi ha preso alla gola. Anzi, furono questi i meno bugiardi dei miei piaceri».

Miguel Mañara è ben cosciente che al fondo del suo animo c’è il desiderio di cercare e raggiungere l’amore immenso tanto che arriva a dire ai suoi interlocutori nel primo quadro: «Certo, nella mia giovinezza, ho cercato anch’io, proprio come voi, la miserevole gioia, l’inquieta straniera che vi dona la sua vita e non vi dice il suo nome. Ma in me nacque presto il desiderio di inseguire ciò che voi non conoscerete mai: l’amore immenso, tenebroso e dolce. Più di una volta credetti di averlo afferrato: e non era che un fantasma di fiamma». Quale statura assume qui il personaggio a differenza del Don Giovanni della tradizione, ebbro di piacere e dimentico spesso del suo cuore: nella sua miseria, Miguel Mañara riacquista dignità proprio nella consapevolezza della vertigine dell’«abisso di vita» che lui percepisce: «Come colmarlo, quest’abisso di vita? Che fare? Perché il desiderio è sempre lì, più forte, più folle che mai. È come un incendio marino che avventi la sua fiamma nel più profondo del nero nulla universale! È un desiderio di colmare le infinite possibilità!». 

Queste domande riecheggiano quelle espresse da Leopardi nella lettera all’amico belga Jacopssen il 23 giugno 1823, pochi mesi prima della composizione della poesia Alla sua donna: «Nell’amore, tutte le gioie che provano le animi volgari, non valgono il piacere che dà un solo istante di rapimento e d’emozione profonda. Ma come far sì che questo sentimento sia duraturo, o che si rinnovi spesso nella vita?  dove trovare un cuore che gli corrisponda? Che cos’è dunque la felicità, mio caro amico? e se la felicità non esiste, che cos’è dunque la vita?». Nel contempo, le parole di Miguel Mañara richiamano il desiderio di un piacere infinito espresso da un personaggio del romanzo di I. Turgenev Padri e figli, Odincova, che chiede all’amico Bazarov: «Perché anche quando godiamo, ad esempio, di una musica, di una buona serata, della  conversazione con gente simpatica, perché tutto ciò sembra piuttosto un’allusione a non so che smisurata felicità che esiste in qualche luogo, anziché una felicità reale, cioè, tale che la possediamo noi?».

Miguel Mañara ha per tanto tempo tentato di colmare l’abisso di infinito che sentiva nel cuore con lo stupore di assaporare piaceri nuovi: «Una bellezza nuova, un nuovo dolore, un nuovo bene di cui presto ci si sazi, per meglio assaporare il vino di un male nuovo, una nuova vita, un infinito di vite nuove, ecco quello di cui ho bisogno, signori: semplicemente questo, e nulla di più». Nella sua vita accadrà, però, un imprevisto che lo sorprenderà, facendogli presagire una risposta del tutto diversa da quanto aveva preventivato.