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LA KNOX IN ITALIA

La verità di Amanda diventa show, ma le ombre restano

Quello che sconcerta è lo spazio spropositato concesso alla testimonianza di Amanda Knox, fuggita prima del verdetto di assoluzione definitiva. Rimangono riserve sul suo comportamento e sul ruolo giocato dalle autorità americane in quegli anni di sua ingiusta detenzione. Giusto denunciare la malagiustizia, ma ci sono ben altre vittime da invitare. 

Attualità 16_06_2019

Si è chiusa ieri la prima edizione del Festival della giustizia penale, organizzato dalla Camera penale di Modena, unitamente ad Italy Innocence Project. E’ durata tre giorni e ha ospitato interessanti dibattiti con insigni e competenti relatori. Fuori luogo, però, una delle sue iniziative: quella di coinvolgere come relatore Amanda Knox, la giovane statunitense accusata di aver preso parte all’omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher e assolta 4 anni fa.

Il delitto di Perugia del 2007 ha un solo colpevole, Rudy Guede, che sta scontando in carcere la pena dopo aver patteggiato, ma anche dopo aver asserito che con lui, sulla scena del delitto, c’erano Amanda e l’allora suo fidanzato Raffaele Sollecito. Nonostante l’assoluzione di Amanda e Raffaele, sono rimasti tanti dubbi su quel processo, anche per le presunte pressioni esercitate da ambienti americani.

La 31enne americana ha parlato ieri dal palco del Forum Monzani quasi fosse una star e ha ribadito la sua innocenza: «Il primo novembre 2007, un ladro, Rudy Guede è entrato nel mio appartamento, ha violentato e ha ucciso Meredith. Ha lasciato tracce di dna e impronte. È fuggito dal Paese, processato e condannato. Nonostante ciò un numero importante di persone non ha sentito il suo nome, questo perché pm, polizia e giornalisti si sono concentrati su di me. Giornalisti chiedevano di arrestare un colpevole. Hanno indagato me mentre Guede fuggiva. Non basandosi su prove o testimonianze». 

La ragazza ha rivolto anche accuse pesanti alla polizia: «Pensavo di aiutare la Polizia ma sono stata interrogata per 50 ore in una lingua che non conoscevo bene. Dicevano che mentivo». E ha infine attaccato i media: «È stata creata una storia falsa e infondata, che ha scatenato le fantasie della gente. Una storia che parlava alle paure della gente. Non potevo più godere del privilegio della privacy. La mia famiglia veniva descritta come un clan. Io prima del processo ero sommersa da una montagna di fantasie da tabloid. L'inchiesta è stata contaminata a causa dello spettacolo mediatico, la giuria corrotta, non era possibile avere un processo giusto. L'opinione pubblica non deve rispondere a nessuno, non ci sono regole se non che il sensazionalismo vince. I pm e i media avevano creato una storia e una versione di me adatta a quella storia».

Visto che queste parole Amanda le ha pronunciate ieri dinanzi a una platea di avvocati e uomini di diritto, nell’ambito di un dibattito sui processi mediatici, gli applausi non potevano mancare. Ha portato acqua al mulino di chi giustamente ritiene che la spettacolarizzazione della giustizia sia uno dei mali da sconfiggere nel nostro Paese. Puntate di talk show che pretendono di anticipare per via mediatica sentenze che devono essere pronunciate nei tribunali. Opinionisti che si dividono in innocentisti e colpevolisti e ingaggiano veri e propri duelli dinanzi a milioni di cittadini, tentando di influenzare il loro giudizio su un caso di cronaca. E’ quello che certamente è successo in occasione del delitto di Perugia, ma anche di tanti altri tragici e crudeli delitti come quello di Avetrana o di Garlasco.

Quello che sconcerta, però, è lo spazio davvero spropositato che è stato concesso alla testimonianza di una ragazza, Amanda Knox, fuggita prima del verdetto di assoluzione definitiva pronunciato dalla Cassazione. Ammesso che anche lei sia stata una delle vittime dei processi mediatici, rimangono riserve sul suo comportamento e sul ruolo giocato dalle autorità americane in quegli anni di sua ingiusta detenzione (rimase in carcere con Sollecito per quasi 4 anni, fino al 2011). In Italia i numeri di innocenti che rimangono in carcere per anni sono sconcertanti. Sono le vittime dei tempi biblici della giustizia, ma anche dell’incuria investigativa e dell’approssimazione o faziosità con le quali vengono spesso approcciati casi di cronaca. 

Nel caso del delitto di Perugia, però, ci sono stati altri elementi che hanno indubbiamente condizionato l’esito finale del caso e che gettano comunque ombre sul verdetto assolutorio di Amanda e Raffaele. I media hanno certamente riversato fango sui due ragazzi poi assolti definitivamente, ma non hanno neppure preservato la dignità della vittima e della sua famiglia. Il clamore mediatico ha fatto sì che non si spegnessero i riflettori sul caso, affinchè ai due ragazzi venisse data la possibilità di dimostrare la loro innocenza. Molti ricordano il video girato dalla polizia scientifica sul luogo del delitto e mandato in onda da una tv pugliese per denunciare la superficialità nella conduzione delle indagini. Quel video, però, ritraeva il reggiseno di Meredith imbrattato di sangue e altri particolari macabri della scena del delitto. Il giornalista responsabile di quella violazione deontologica è stato sanzionato dall’Ordine dei giornalisti, ma la ferita nella famiglia della vittima è rimasta.

Tutto questo per dire che gli organizzatori del Festival di Modena, per perorare la loro nobile causa di dichiarare guerra ai processi mediatici, avrebbero potuto invitare, anziché Amanda Knox, tante altre vittime di malagiustizia, senza contribuire, sia pure involontariamente, alla riesumazione e alla conseguente spettacolarizzazione di una vicenda giudiziaria mai chiarita fino in fondo.