Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Santo Stefano a cura di Ermes Dovico
AMBIENTALISMO

La vera catastrofe è il catastrofismo climatico

I cambiamenti climatici non sono una novità e hanno elementi positivi, non solo negativi. È la realtà dimenticata dagli allarmisti che, naturalmente, attribuiscono all'uomo la colpa del calore e della siccità. Non è capace di far piovere ma è colpevole della mancata pioggia: ecco l'altra faccia dell'illusione prometeica.

Creato 05_08_2022

Ho particolarmente apprezzato l’articolo di Stefano Chiappalone dedicato all’illusione prometeica sconfitta dalla nostra incapacità di far piovere risolvendo una siccità con mezzi tecnologici. A tali considerazioni mi viene da aggiungere che oggi è molto diffuso un ulteriore tipo di illusione prometeica, e cioè quella per cui “non piove per colpa dell’uomo che ha alterato in modo irreparabile il clima”. È questo il catastrofismo climatico, che fiacca le coscienze e rende succubi e pronti a "marciare" e ad accettare l’idea che per salvare il pianeta sia necessario distruggere quel che si è costruito in secoli di sacrifici.

Come nasce l’idea odierna di catastrofe climatica
Ogni civiltà ha partorito una propria idea di catastrofe climatica: chi l’ha associata al diluvio e chi all’avanzata dei ghiacci. L’idea di catastrofe associata al riscaldamento globale è tuttavia un unicum, partorito dalla nostra civiltà, postindustriale e globalizzata.
Per comprendere come si sia giunti a concepire l’idea di catastrofe climatica nei termini correntemente usati – vedi l’intervista alla fisica del clima Judith Curry – e fatti ad esempio propri dai giovani dei “Friday for future” o dalle nostre stesse classi politiche, occorre considerare che fino agli anni ’70 del XX secolo, al culmine di una fase di raffreddamento iniziatasi negli anni ’50, andava per la maggiore la teoria secondo cui si fosse ormai superato il culmine del periodo caldo interglaciale e che il clima si avviasse inesorabilmente verso una nuova glaciazione. Alla fine degli anni ’70 le temperature globali iniziarono però a risalire, secondo una tendenza che è tuttora in atto. A quel punto alcuni modellisti iniziarono ad applicare in modo massiccio modelli climatici globali (alias GCM) basati sui comuni modelli matematici con cui si fanno le previsioni del tempo, cui venne aggiunta la dinamica degli oceani e di ghiacci. Con tali modelli si ottennero importanti acquisizioni conoscitive (per esempio: cosa succederebbe se il pianeta fosse tutto coperto di ghiacci o se i ghiacci scomparissero o se l’effetto serra fosse assente). Non paghi di ciò si iniziò a spingere tali modelli verso il futuro per delineare scenari previsionali a 50-100 anni, con ciò trascurando i limiti intrinseci di tale tecnologia, che tutt’oggi non è in grado ad esempio di prevedere la variabilità della copertura nuvolosa e dell’attività solare, l’attività vulcanica o alcune grandi ciclicità climatiche che hanno radici negli oceani (da quelle di brevissimo periodo come El Nino a quelle di più lungo periodo fino a quelle glaciali). Tali effetti, che i modelli descrivono in modo inaccurato, vanno sotto il nome di componente naturale del cambiamento climatico, che va ad aggiungersi alla componente antropica legata ad esempio all’emissione di gas ad effetto serra e di aerosol e agli imponenti cambiamenti di uso del suolo legati all’agricoltura e all’urbanizzazione.
È chiaro che l’effetto antropico ha la sua impronta nell’aumento delle temperature globali che con alti e bassi sono complessivamente cresciute di 1,2°C dal 1850 ad oggi, così come è chiaro che il clima è cambiato anche prima che l’azione dell’uomo assumesse un peso significativo.  A ciò si deve aggiungere che il dibattito scientifico è tutt’ora aperto – e a mio avviso è bene che rimanga aperto fintanto che tutti i dubbi non verranno chiariti – con riferimento al peso relativo della componente naturale e della componente antropica (se i GCM sono inaccurati anche la loro stima del peso di tali componenti è inaccurata) e sull’idea, diffusa a piena mani dai media, che il cambiamento climatico stia conducendo a una catastrofe climatica.

La catastrofica idea di “catastrofe climatica”
L’idea di essere alla vigilia di una catastrofe climatica può rivelarsi essa stessa catastrofica in quanto  spinge a indirizzare tutte le risorse disponibili verso tecniche di mitigazione del cambiamento climatico (in primis le tecniche di decarbonizzazione come la CCS – Cattura e sequestro del carbonio) sulla cui reale sostenibilità permangono forti dubbi. Meglio sarebbe investire le nostre limitate risorse in tecniche di adattamento al clima che cambia, come ci dimostrano tre dati di fatto da cui non si può in alcun modo prescindere e cioè che: (a) la mortalità globale per eventi meteorologici estremi è diminuita del 99% in 100 anni, (b) i costi globali per eventi meteorologici estremi sono diminuiti del 26% negli ultimi 28 anni e (c) la vulnerabilità agli eventi meteorologici estremi è di gran lunga più elevata nei paesi in via di sviluppo rispetto ai paesi sviluppati.
Da questi dati a mio avviso si desume che le strategie di adattamento al clima che cambia sono vincenti e che l’adattamento si ottiene in primis aumentando i livelli di benessere delle popolazione mondiale, in quanto una popolazione più ricca è meno vulnerabile agli eventi estremi. In questa chiave assumerebbe un ruolo determinante investire risorse economiche nel trasferimento tecnologico verso i Paesi in via di sviluppo, in modo da aumentare la loro capacità di produrre cibo e il loro tenore di vita.
L’economista ambientale Bjorn Lomborg scrive in un suo articolo scientifico del 2020 (*) che mentre le politiche di adattamento sono una priorità assoluta, le politiche di mitigazione basate sul contenimento dei livelli atmosferici di CO2 dovrebbero essere attuate solo a seguito di un piano di investimenti in ricerca e sviluppo che renda la “decarbonizzazione” molto più economica rispetto ai costi odierni. E il fatto che tali costi siano oggi esorbitanti lo dimostrano le stime dello stesso Lomborg, secondo le quali la piena attuazione degli accordi di Parigi del dicembre 2015 miranti al contenimento dei livelli atmosferici di CO2 porterà ad una spesa globale annua che per il 2030 è su valori compresi fra  819 e 1890 miliardi di dollari, a fronte di un risultato irrisorio: le emissioni si ridurranno solo dell'1% rispetto a quanto necessario per limitare l'aumento della temperatura media globale a 1,5°C. 

Cibo, acqua e energia
Ma verso cosa orientare le attività di adattamento? Cibo, acqua ed energia sono i tre elementi oggi più critici per l’umanità a livello globale il che ci consente di individuare altrettante vie maestre su cui indirizzare le azioni di adattamento. Circa il cibo occorrerebbe mirare a un’agricoltura più resiliente rispetto agli effetti negativi del cambiamento climatico. Su questo abbiamo già fatto passi da gigante se si considera che le principali colture che nutrono il mondo (frumento, riso, mais e soia, responsabili del soddisfacimento del 64% del fabbisogno calorico umano globale) stanno aumentando le proprie rese in modo molto rilevante ma passiamo sicuramente fare meglio, adottando nuove varietà  e nuove tecniche colturali più efficienti nell’uso dei fattori di produzione (acqua, nutrienti, fitofarmaci, ecc.). Fra tali tecniche ricordo le tecniche di agricoltura conservativa e di agricoltura di precisione
In tema poi di risorse idriche sappiamo che se l’acqua piovana è in eccesso è generatrice di frane e alluvioni mentre se è in difetto porta siccità. Le frane e le alluvioni vanno prevenute con azioni a livello territoriale ben note a idrologi, geologi e agronomi e volte ad esempio a regolare il deflusso delle acque in eccesso. Circa poi la siccità, oggi più che mai all’ordine del giorno nel Nord Italia, esistono svariati strumenti per contrastarla come la realizzazione e gestione razionale degli invasi artificiali e le tecniche di agricoltura conservativa (pacciamatura, minima lavorazione del suolo, semina su sodo, ecc.) che consentono di ridurre il consumo idrico per unità di prodotto agricolo. Molti più dubbi sussistono invece rispetto all’idea di inseminare le nubi per stimolare la pioggia, una tecnologia che ha ancora molti elementi di incertezza ad iniziare dal fatto che se non ci sono nubi di una certa entità non si può applicare. Per l’Italia escluderei anche l’adozione generalizzata di metodi di dissalazione dell’acqua marina, adatti ad aree pre-desertiche come gran parte di Israele (sul Negev piovono 150-200 m l’anno) e non a un Paese come l’Italia in cui ogni anno a seconda delle zone piovono dai 450 ai 3300 millimetri (o se preferite litri di pioggia per metro quadrato). L’adattamento dell’agricoltura alla siccità passa poi per la selezione, anche con tecniche genetiche innovative, di varietà meno sensibili agli eventi meteorologici estremi. In tal senso segnalo il recente annuncio della messa in commercio in Argentina di un grano OGM resistente alla siccità, e qui ricordo con grande rammarico che in Italia sull’utilizzo di moderne biotecnologie nel miglioramento genetico in agricoltura vige da decenni la fatwa degli ambientalisti.
Circa poi l’energia occorre giungere a un mix di fonti energetiche il più possibile oculato e nel quale dovrebbe trovare una propria collocazione anche il nucleare di nuova generazione, se non altro per il fatto che non emette CO2.
In sintesi dunque politiche climatiche più efficaci e basate prioritariamente sull’adattamento possono ridurre la vulnerabilità al cambiamento climatico mentre l'attuale approccio sta portando a politiche climatiche dispendiose e inefficaci, distogliendo i fondi e l’attenzione della collettività dai modi più efficaci per migliorare il nostro mondo.
Tutto questo per dire che sarebbe oggi necessario abbandonare l’atteggiamento culturale millenaristico per un visione più serena ed equilibrata del cambiamento climatico e che ne colga non solo gli aspetti negativi (in primis il maggior numero di ondate di calore) ma anche gli elementi positivi, fra cui ricordo le minori spese per riscaldamento (confermate per l’Europa da una recente indagine di Eurostat) e la riduzione della mortalità da freddo, che secondo recentissimi studi scientifici è ancora di gran lunga prevalente rispetto a quella da caldo.
Come vedete ho sviluppato un altro filone dell’illusione prometeica, parallelo a quello su cui ha così efficacemente riflettuto Stefano Chiappalone, con il quale concordo sul fatto il figlio di Prometeo è in realtà oggi più che mai figlio di Adamo, indifeso abitante di un universo che le sue mani non possono dominare appieno.

Ringraziamenti
L’autore ringrazia gli amici Gianluca Alimonti e franco Zavatti per la lettura critica preliminare del testo.

(*) Bjorn Lomborg, 2020. Welfare in the 21st century: Increasing development, reducing inequality, the impact of climate change, and the cost of climate policies,Technological Forecasting & Social Change 156 (2020) 119981