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IL LIBRO DEL PAPA

La tragedia di Giuda: non credette nel perdono

Il suo pentimento diventa disperazione, non vede la luce di Gesù. Invece "fa parte del giusto pentimento la certezza della speranza".

Attualità 02_03_2011
giuda

 
Il libro del Papa Gesù di Nazaret.
Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, uscirà la prossima settimana e sarà presentato in Vaticano il pomeriggio del 10 marzo. E' il secondo volume che Benedetto XVI dedica alla figura di Gesù di Nazaret. Ecco uno stralcio dal terzo capitolo intitolato "La lavanda dei piedi", nel quale si parla del tradimento di Giuda.
 
La pericope della lavanda dei piedi ci mette di fronte a due differenti forme di reazione dell’uomo a questo dono: Giuda e Pietro. Subito dopo aver accennato all’esempio, Gesù comincia a parlare del caso di Giuda. Giovanni ci riferisce, al riguardo, che Gesù fu profondamente turbato e dichiarò: «In verità, in verità io vi dico: uno di voi mi tradirà» (13, 21).

Tre volte Giovanni parla del «turbamento» ovvero della «commozione» di Gesù: presso il sepolcro di Lazzaro (cfr. 11, 33. 38); la «Domenica delle Palme» dopo la parola sul chicco di grano morto, in una scena che richiama da vicino l’ora del Monte degli ulivi (cfr. 12, 24-27); e infine qui. Sono momenti in cui Gesù incontra la maestà della morte ed è toccato dal potere delle tenebre — un potere che è suo compito combattere e vincere.

Ritorneremo a questa «commozione» dell’anima di Gesù, quando rifletteremo sulla notte del Monte degli ulivi.

Torniamo al nostro testo. L’annuncio del tradimento suscita comprensibilmente agitazione e, al contempo, curiosità tra i discepoli. «Uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco di Gesù. Simon Pietro gli fece cenno di informarsi chi fosse quello di cui parlava. Ed egli, chinandosi sul petto di Gesù, gli disse: “Signore, chi è?’’. Rispose Gesù: “È colui per il quale intingerò un boccone e glielo darò’’» (13, 23 ss). Per la comprensione di questo testo bisogna anzitutto tener conto del fatto che per la cena pasquale era prescritto lo stare adagiati a tavola.

Charles K. Barrett spiega il versetto appena citato così: «I partecipanti ad una cena stavano sdraiati sulla loro sinistra; il braccio sinistro serviva a sostenere il corpo; quello destro era libero per essere usato. Il discepolo alla destra di Gesù aveva quindi il suo capo immediatamente davanti a Gesù, e si poteva conseguentemente dire che era adagiato presso il suo petto. Ovviamente era in grado di parlare in confidenza con Gesù, ma il suo non era il posto d’onore più alto; questo era situato a sinistra dell’ospitante. Il posto occupato dal discepolo amato era nondimeno il posto di un intimo amico»; Barrett fa notare in questo contesto che esiste una descrizione parallela in Plinio (p. 437).

Così come è qui riportata, la risposta di Gesù è totalmente chiara. Ma l’evangelista ci fa sapere che, tuttavia, i discepoli non capirono a chi si riferiva.

Possiamo quindi supporre che Giovanni, ripensando all’evento, abbia dato alla risposta una evidenza che essa per i presenti, sul momento, non aveva. Il versetto 18 ci mette sulla giusta traccia. Qui Gesù dice: «Deve compiersi la Scrittura: Colui che mangia il mio pane, ha alzato contro di me il suo calcagno» (cfr. Salmi, 41, 10; 55, 14).

È questo lo stile caratteristico del parlare di Gesù: con parole della Scrittura Egli allude al suo destino, inserendolo allo stesso tempo nella logica di Dio, nella logica della storia della salvezza.

Successivamente tali parole diventano totalmente trasparenti; si rende chiaro che la Scrittura descrive veramente il suo cammino - ma sul momento rimane l’enigma. Inizialmente se ne arguisce soltanto che colui che tradirà Gesù è uno dei commensali; diventa evidente che il Signore deve subire sino alla fine e fin nei particolari il destino di sofferenza del giusto, un destino che appare in molteplici modi soprattutto nei Salmi. Gesù deve sperimentare l’incomprensione, l’infedeltà fino all’interno del cerchio più intimo degli amici e così «compiere la Scrittura». Egli si rivela come il vero soggetto dei Salmi, come il «Davide», dal quale essi provengono e mediante il quale acquistano senso.

Giovanni, scegliendo al posto dell’espressione usata nella Bibbia greca per «mangiare» la parola tro-gein con cui Gesù nel suo grande discorso sul pane indica il «mangiare» il suo corpo e sangue, cioè il ricevere il Sacramento eucaristico (cfr. Giovanni, 6, 54-58), ha aggiunto una nuova dimensione alla parola del Salmo ripresa da Gesù come profezia sul proprio cammino.

Così la parola del Salmo getta anticipatamente la sua ombra sulla Chiesa che celebra l’Eucaristia, nel tempo dell’evangelista come in tutti i tempi: con il tradimento di Giuda la sofferenza per la slealtà non è finita. «Anche l’amico in cui confidavo, che con me divideva il pane, contro di me alza il suo piede» (Salmi, 41, 10).

La rottura dell’amicizia giunge fin nella comunità sacramentale della Chiesa, dove sempre di nuovo ci sono persone che prendono «il suo pane» e lo tradiscono. La sofferenza di Gesù, la sua agonia, perdura sino alla fine del mondo, ha scritto Pascal in base a tali considerazioni (cfr. Pensées, VII, 553). Possiamo esprimerlo anche dal punto di vista opposto: Gesù in quell’ora si è caricato del tradimento di tutti i tempi, della sofferenza che viene in ogni tempo dall’essere traditi, sopportando così fino in fondo le miserie della storia.
Giovanni non ci dà alcuna interpretazione psicologica dell’agire di Giuda; l’unico punto di riferimento che ci offre è l’accenno al fatto che Giuda, come tesoriere del gruppo dei discepoli, avrebbe sottratto il loro denaro (cfr. 12, 6).

Quanto al contesto che ci interessa, l’evangelista dice soltanto laconicamente: «Allora, dopo quel boccone, satana entrò in lui» (13, 27). Ciò che a Giuda è accaduto per Giovanni non è più psicologicamente spiegabile. È finito sotto il dominio di qualcun altro: chi rompe l’amicizia con Gesù, chi si scrolla di dosso il suo «dolce giogo», non giunge alla libertà, non diventa libero, ma diventa invece schiavo di altre potenze – o piuttosto: il fatto che egli tradisce questa amicizia deriva ormai dall’intervento di un altro potere, al quale si è aperto.

Tuttavia, la luce che, provenendo da Gesù, era caduta nell’anima di Giuda, non si era spenta del tutto. C’è un primo passo verso la conversione: «Ho peccato», dice ai suoi committenti. Cerca di salvare Gesù e ridà il denaro (cfr. Matteo, 27, 3 ss). Tutto ciò che di puro e di grande aveva ricevuto da Gesù, rimaneva iscritto nella sua anima — non poteva dimenticarlo.

La seconda sua tragedia – dopo il tradimento — è che non riesce più a credere a un perdono. Il suo pentimento diventa disperazione. Egli vede ormai solo se stesso e le sue tenebre, non vede più la luce di Gesù – quella luce che può illuminare e superare anche le tenebre. Ci fa così vedere il modo errato del pentimento: un pentimento che non riesce più a sperare, ma vede ormai solo il proprio buio, è distruttivo e non è un vero pentimento.

Fa parte del giusto pentimento la certezza della speranza – una certezza che nasce dalla fede nella potenza maggiore della Luce fattasi carne in Gesù. Giovanni conclude il brano su Giuda in modo drammatico con le parole: «Egli, preso il boccone, subito uscì. Ed era notte» (13, 30).

Giuda esce fuori – in un senso più profondo. Entra nella notte, va via dalla luce verso il buio; il «potere delle tenebre» lo ha afferrato (cfr. Giovanni, 3, 19; Luca, 22, 53).