La Theologia crucis in san Tommaso, retta sintesi di natura e grazia
Diversamente dall’impostazione paradossale di Lutero, san Tommaso non contrappone natura e grazia, ma ne spiega l’organico rapporto, con la seconda che perfeziona la prima. La sua teologia sacramentale si fonda sulla virtus della croce, con un sano et-et: iniziativa divina e collaborazione umana.
Nel precedente articolo, si è cercato di mostrare la lacerazione tra fede e ragione, tra grazia e natura provocata dall’impostazione paradossale della Theologia crucis in Martin Lutero (1483-1546), da alcuni studiosi riconosciuta come la vera carta d’identità del suo pensiero teologico. La forza che promana da questa impostazione ha sedotto e continua a sedurre molti, per la sua assonanza con uno dei passi di San Paolo più incisivi e noti: «Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma a predicare il vangelo; non però con un discorso sapiente, perché non venga resa vana la croce di Cristo. La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio […] Dov'è il sapiente? Dov'è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani. Ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio» (1Cor 1, 17-18.20-24).
La questione si sposta inevitabilmente sull’interpretazione di questo testo e degli altri affini: esso significa veramente la condanna di ogni teologia naturale, dal momento che Dio si rivelerebbe sempre e solo sub contraria specie, cioè sempre nel modo opposto da come l’uomo potrebbe attenderlo? Dobbiamo intenderlo come lo scavo di un abisso che separa il mondo della creazione dal mondo della rivelazione, determinandoli come due universi non comunicanti, o al massimo appena tangenti?
Nell’enciclica Deus caritas est, Benedetto XVI offriva con grande efficacia espressiva la risposta che la grande tradizione della Chiesa dava alla questione: «La fede biblica non costruisce un mondo parallelo o un mondo contrapposto rispetto a quell'originario fenomeno umano che è l'amore, ma accetta tutto l'uomo intervenendo nella sua ricerca di amore per purificarla, dischiudendogli al contempo nuove dimensioni» (n. 8). Quanto affermato qui riguardo all’amore va esteso ad ogni dimensione della vita umana, raggiungendo così il grande principio che troviamo sintetizzato da San Tommaso d'Aquino (1224/25-1274) all’inizio della Summa Theologiæ: «Gratia non tollit naturam, sed perficit» (I, q. 1, a. 8 ad 2), la grazia non distrugge la natura, ma la perfeziona; che fa il paio con quest’altro: «Gratia perficit naturam secundum modum naturæ» (I, q. 62, a. 5), la grazia perfeziona la natura secondo il modo di essere della natura stessa.
Il paradosso della croce dev’essere compreso su questo sfondo, necessario per evitare lo scivolamento dal mistero all’assurdo, l’assurdo cioè di un Dio che entrerebbe in contraddizione con quella natura da Lui stesso creata; la redenzione è stata infatti considerata fin dall’antichità cristiana come una ricapitolazione, ossia un recupero e una elevazione dell’opera della creazione, non come una distruzione o sovversione dell’ordine creato e nemmeno di una sua insignificanza. E tuttavia non si deve commettere l’errore di ammortire, se non addirittura annullare, la forza paradossale della croce. In un un prezioso intervento all’VIII Congresso tomistico internazionale (8-13 settembre 1980), monsignor Brunero Gherardini (1925-2017), allora ordinario di Ecclesiologia ed Ecumenismo alla Pontificia Università Lateranense, mostrava che nel pensiero di San Tommaso era ben presente questa dimensione paradossale della redenzione, e dunque della croce, strumento infamante di tortura e morte che, grazie alla sua relazione al Signore Gesù Cristo, diviene strumento di grazia e segno di gloria. Ma questa virtù della croce è appunto per la guarigione e l’elevazione di una natura ferita e malata: ovunque questa virtù giunga, l’uomo viene guarito dal suo male mortale e da ogni languore.
La croce di Cristo è quel rinnovato albero della vita di genesiaca fondazione, di cui parla l’Apocalisse (22, 2), che «dà dodici raccolti all'anno, porta il suo frutto ogni mese e le foglie dell'albero sono per la guarigione delle nazioni». Ma come quest’albero può raggiungere tutte le nazioni di ogni luogo e ogni tempo? San Tommaso fornisce la risposta, imperniando tutta la sua teologia sacramentale proprio sulla virtus della croce: tutti i sacramenti, in particolare l’Eucaristia e il battesimo, nascono dall’acqua e dal sangue versati da Cristo sulla croce (cf. ST III, q. 62, a. 5), la cui forza redentrice viene legata da Cristo a quei mezzi da Lui istituiti, i sacramenti appunto, che «operano in virtù della passione di Cristo, e questa con i sacramenti viene come applicata ai singoli individui» (ST III, q. 61, a. 1 ad 3). Il grande paradosso della croce, che da strumento di morte diventa mezzo di vita, trova la sua vera efficacia proprio in quei sacramenti, che, paradossalmente, Lutero ha finito per mortificare. Nella prospettiva cattolica, incastonandosi nella dimensione sacramentale, la croce diviene efficacemente strumento di grazia e di vita, ma lo fa non annullando la creazione, bensì da un lato servendosene (nei segni sacramentali) e dall’altro risanandola ed elevandola (nell’effetto del sacramento).
Ancora, la croce penetra e regge tutta la vita morale del cristiano. Essa ci pone davanti le virtù del Crocifisso, che divengono, per mezzo della virtus della croce a cui si apre la collaborazione umana, il suo nuovo modo di vivere, rovesciando così la prudenza di questo mondo, che valuta la mortificazione, la sofferenza, la persecuzione, la sconfitta, come stoltezza. Il cristiano è chiamato a rivivere in sé il mistero della croce nella continua lotta a tutto quanto nasce dalla carne, secondo l’espressione paolina, ma ancora una volta non per distruggere la propria natura (sebbene la durezza della lotta possa talvolta portarci a pensare così), bensì per liberarla dal peccato e dai lacci della concupiscenza e renderla sempre più docile all’opera di santificazione.
La croce non perde così nulla della sua forza paradossale: non smette di mettere in crisi la sapienza del mondo, la quale non cessa di cercare ciò che è secondo la carne, e continua ad esigere dall’uomo il salto della fede, senza il quale la vita sacramentale risulta inaccettabile e inefficace. Ma nel contempo, la croce diviene non distruzione, ma rinnovamento del primo albero della vita posto al centro del giardino uscito dalla mano creatrice di Dio.
Tra le due theologiæ crucis, quella di Lutero e quella di Tommaso – concludeva Gherardini – c’è dunque «un abisso. La Theologia crucis di Lutero si sviluppa nella linea formale e programmatica del solus; è teologia dell’aut-aut, dell’unilaterale ed esclusiva azione di Dio sul vuoto e sulla condanna di ogni iniziativa umana, o non è altrimenti teologia. La Theologia crucis dell’Angelico si sviluppa partendo da una funzione strumentale che la croce svolge nel processo dell’umano riscatto ed analizzando la funzione, ancora strumentale, affidata al sacramento per la ri-presentazione misterica della croce e dei suoi effetti salutari; è teologia dell’et-et, confermata dai suoi risvolti etici come esigenza di comportamenti coerenti, laddove il risvolto etico della Theologia crucis luterana è solamente quello dell’iniziativa divina» (Atti, vol. I, p. 336).
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